"Ahi, Sudamerica!, "Oriundi, tango e futbol" è il nuovo libro del nostro editorialista Marco Ferrari (Laterza, 264 pagine, 18 Euro, acquistabile in ebook o tramite Amazon o Ibs) che racconta storie e leggende tra l'Italia e l'Argentina, tra Genova, Montevideo e Buenos Aires sempre legate dal sogno del calcio. Sono storie, esilaranti, malinconiche e struggenti, a cavallo tra le due sponde dell'oceano, con in mente i personaggi strampalati di Osvaldo Soriano e come colonna sonora le note intense di Astor Piazzolla. All'inizio del Novecento nascono squadre mitiche, dagli xeneizes del Boca Juniors ai millonarios del River Plate, dal Peñarol all'Audax Italiano di Santiago del Cile. La febbre del calcio si trasmette a tutto il continente e gli italiani sono sempre i portatori sani di questa epidemia, da San Paolo del Brasile a Caracas, Asunción e Montevideo. Scopriamo così le imprese e le avventure improbabili di calciatori geniali e destinati a segnare la storia: dal trio delle meraviglie del Torino fino al grandioso Guillermo António Stábile, El Filtrador. Così, tra i tangueros della Juventus, il Bologna uruguagio voluto da Mussolini, i romanisti in fuga dal regime fascista, i cinque "bidoni" uruguayani comprati dall'Inter, ci sorprenderemo e commuoveremo di fronte alle vicende di quelli che Borges chiamava i «figli dell'Europa rovesciata e depositata dall'altra parte dell'Atlantico». Storie malinconiche e surreali in cui pure Lionel Messi, La Pulga, ha qualcosa in comune con Giacomo Leopardi. Pubblichiamo parti del libro di Marco Ferrari.

Di Marco Ferrari

La scomparsa di padre Lorenzo Massa, il 31 ottobre del '49, segna la fine di un'epoca artigianale, tra passione e devozione, comunità e affetto, un quarantennio di ascese verso il professionismo, da ragazzi di Boedo a grandi firme del pallone. Tra queste figura José Francisco Sanfilippo, classe 1935, cresciuto nelle giovanili azulgrana, già leader della squadra a vent'anni, stella che brilla anche nella tournée europea del 1956, un po' offuscata a livello di nazionale da Sivori e Labruna, per quattro anni capocannoniere del campionato, record mai eguagliato. 

Los cuervos vivranno la loro epoca dorada tra il 1968 e il '74 nel momento in cui Bergoglio, ricevuta l'ordinazione presbiterale nel '69, si dedica principalmente all'insegnamento. Oltre al calcio, la polisportiva si affermerà anche nelle altre discipline, come l'atletica, la pallacanestro e il nuoto con Angela Marchetti, campionessa mondiale di fondo nel 1973. In quegli an- ni los cuervos acquisiscono un altro nomignolo, los carasucias, il florido vivaio della società, impavidi giovanotti che giocano nello stesso modo, dalle strade piene di pozzanghere ai campi infangati del pallone. Hanno cognomi italiani, Casa, Rossi, Sanfilippo, Rendo, Cocco, Veglio, per loro l'Italia è una terra perduta a cui rivolgere solo un sospiro di nostalgia. Victorio Francisco Casa è detto El Manco perché un soldato gli spara al braccio proprio di fronte alla sede dell'Esma (Escuela de Mecánica de la Armada), quella che diventerà la caserma delle torture del lungo tunnel della dittatura. Dopo l'amputazione, con una protesi, un mese e mezzo dopo l'incidente, Casa torna in campo, anche se non sarà più lo stesso. 

Le stelle di quel periodo sono Roberto Marcelo Telch detto La Oveja (La Pecora) per la sua estrosa capigliatura, il terzino uruguayo Sergio Sapo Villar, recordman di presenze con 461 partite giocate nelle file azulgrana, e Héctor Veira che vorrebbe farsi chiamare Puma, invece viene indicato col nome dell'idolo Pontoni, ma passerà alla storia come il Bambino, affibbiatogli dai giornalisti italiani presenti a San Siro in un pomeriggio del 1964. Tutto ballo e mosse, figlio di un suonatore di bandoneón, figlio della notte di Buenos Aires, Veira ha un sinistro magico. Oggi si può affermare che Veira sarebbe stato il primo Maradona d'esportazione se il padre non avesse rifiutato le avances del Real Madrid, troppo avvezzo alle gradinate del Gasómetro, dove suo figlio faceva l'incantatore del pubblico. Al Toto Juan Carlos Lorenzo, in uno dei suoi rientri in patria dalla capitale italiana, riesce anche la doppietta della vittoria nel Campionato Metropolitano e nel Campeonato Nacional con il San Lorenzo nel 1972. 

Dopo i trionfi, la catastrofe tra la metà degli anni Settanta e i primi anni Ottanta con la chiusura del mitico Gasómetro nel '79 in pieno regime militare e la demolizione nel 1983 e la prima retrocessione in seconda divisione il 15 agosto 1981. 

Con la fine della dittatura, anche il calcio riavvia la propria immagine. La gente di Boedo lo fa partendo dalla dimensione collettiva e sociale del calcio con il ritorno in Primera División, il risanamento delle finanze e l'apertura del Nuevo Gasómetro nel '93 nel Bajo Flores. La hinchada del San Lorenzo ha così una nuova casa in cui forgiare quella mistica della fede che unisce la rappresentazione laica dello stadio alla forza del credo religioso. 

Nel fútbol orgoglioso e sinuoso degli anni Quaranta Jorge Mario Bergoglio trova un motivo di forte identità laica e religiosa insieme, le grida tumultuose dello stadio e la devozione della Vergine Maria Ausiliatrice, l'amalgama sportiva della cancha e la missione sociale di don Bosco. 

Un mélange difficilmente spiegabile fuori dal Sudamerica. Non a caso la società del San Lorenzo ha una cappella tutta sua, terminata nel 2010, dove l'allora cardinal Bergoglio vi ha detto messa il 24 maggio 2012, festa di Maria Ausiliatrice. Lo stesso Bergoglio aveva celebrato la liturgia per il centenario di fondazione della squadra nel 2008, nell'oratorio di Sant'Antonio dove tutto ebbe inizio un secolo prima. Anche la storia del futuro papa ebbe inizio in quel luogo: «I miei genitori si conobbero a messa nel 1934, all'oratorio salesiano di Sant'Antonio, nel quartiere di Almagro a Buenos Aires», racconta oggi papa Francesco. E con la storica prima vittoria del San Lorenzo nella Coppa Libertadores del 2014 qualcuno insinua che ci sia di mezzo «l'otra mano de Dios» attribuita non a Maradona, ma a Bergoglio. 

San Lorenzo, Sant'Antonio, don Bosco, la basilica di Maria Ausiliatrice ad Almagro, sede del ramo femminile fondato dal prete piemontese, con la statua della Vergine che il futuro papa pregava da ragazzo: una devozione distribuita in ogni angolo di quel quartiere di Buenos Aires dove la povertà la fa ancora da padrona. Ma ogni domenica la messa e il pallone si ritrovano insieme nella preghiera alla Madonna e alle sue vesti che coprono i corpi sottili dei calciatori del San Lorenzo. 

Una volta sola il team di Almagro non ha indossato i colori mariani: è stata la domenica successiva alla elezione di Bergoglio a Pontefice. In quell'occasione la squadra scese in campo battendo il Colón, della provincia di Santa Fe, portando sul petto il volto del papa. 

Nessuno ha più vestito quegli unici trenta esemplari di maglie papali: una è depositata nella cappella della squadra, un'altra nella bacheca della società e le altre vendute per beneficenza. Quella cappella è stata costruita grazie al contributo di un attore famoso di Hollywood, grande tifoso del San Lorenzo, Viggo Mortensen, che ha trascorso parte dell'infanzia proprio nella capitale argentina. Il re Aragorn della trilogia cinematografica del Signore degli Anelli si è fatto così costruttore della roccaforte calcistica del papa. 

CONTINUA