di Federica Olivo

"Mentre a Doha si parla di pace, in Afghanistan la violenza non vuole diminuire". Era il 12 ottobre 2020 quando Marco Puntin, Program Coordinator di Emergency, pronunciava queste parole. Mentre il mondo ben poco pensava alle sorti del Paese asiatico, che sarebbe stato lasciato via via dalle truppe occidentali, l'ong faceva notare che il territorio tutto era meno che sicuro. Che i talebani continuavano a sferrare attacchi. A ripercorrere la storia recente del Paese da pochi giorni tornato quasi interamente nelle mani degli estremisti, non si può non notare come non c'è stato un solo periodo in cui i talebani abbiano del tutto mollato la presa. Le cronache, spesso passate quasi inosservate, degli anni scorsi parlano di attentati rivendicati o meno dai talebani, di bambini morti, di militari, giornalisti, civili uccisi, di ospedali che si riempiono di feriti. Di rappresaglie che aggiungono dolore a dolore.

La lista è lunga e soprattutto in alcuni periodi le azioni violente sono state quasi all'ordine del giorno. Alcune più cruente di altri. Era marzo di quest'anno quando a Jalalabad, al confine con il Pakistan tre donne venivano uccise da uomini armati. Erano operatrici sanitarie che partecipavano alla campagna di vaccinazione anti polio per i bambini. Nessuno ha rivendicato quell'attacco, ma la zona era controllata dai talebani e proprio loro, pochi giorni prima, avevano fatto sapere che non avrebbero consentito le immunizzazioni nei territori in cui avevano il potere. A maggio, invece, un'autobomba esplodeva davanti a una scuola femminile, a Ovest di Kabul. Morivano 63 persone in tutto, centinaia i feriti. Tra le vittime tante giovani, colte dall'esplosione proprio mentre uscivano dall'edificio. I talebani, in questo caso, negavano le responsabilità, ma il governo attribuiva a loro la matrice dell'attacco. A scorrere le cronache di questi anni, chiaramente non ci troviamo di fronte a casi isolati. Gli estremisti hanno ucciso, minacciato, preparato attacchi. Praticamente senza fermarsi mai. L'allarme sulla loro, assolutamente non ridotta, pericolosità del resto era arrivata anche all'inizio di quest'anno, quando dal Pentagono sostenevano che gli estremisti non stavano rispettando gli impegni. Gli Stati Uniti - aveva detto in quell'occasione il portavoce del Dipartimento della Difesa John Kirby riferendosi agli accordi di Doha - restano impegnati sul fronte degli sforzi previsti dall'accordo. Ma senza un impegno dei talebani nel rinunciare al terrorismo e nel fermare i violenti attacchi contro le forze di sicurezza nazionale afghane sarà molto difficile avere sviluppi in avanti dei negoziati". Quello che è accaduto in questi giorni, dunque, non dovrebbe destare stupore.

La mano armata dei talebani, del resto, non si era fermata neanche nel 2020, così come negli anni precedenti. Nel primo trimestre dell'anno scorso la missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan aveva dichiarato che, solo in quel periodo, erano morti 500 civili. Tra loro 150 bambini e 170 donne. Oltre 700 erano stati feriti. Cifre significative, eppure le più basse dal primo trimestre 2012. A dimostrazione del fatto che la violenza non era mai stata accantonata dai talebani. Anzi, è stata forse intensificata nei mesi precedenti l'inizio dei negoziati di Doha, partiti a settembre 2020. Tra metà giugno e metà luglio di quell'anno, ad esempio, sono stati uccisi 129 civili in attacchi suicidi, omicidi mirati ed esplosioni. Non lo sosteneva solo il Consiglio nazionale di sicurezza, che aveva dato queste cifre, ma anche il governo afghano, che il 20 giugno 2020 faceva notare come quella settimana appena finita era stata "la più sanguinosa degli ultimi 19 anni". Vale a dire, sostanzialmente dal momento in cui era partita la missione contro i talebani.

Obiettivo degli estremisti sono state le donne, in alcuni casi. Ma anche militari e giornalisti. Per non parlare dei civili, morti perché casualmente si trovavano per strada, in autobus, a un funerale, a un matrimonio. Gli attentati contro i militari dell'esercito afghano sono così tanti che, anche a voler guardare solo agli ultimi anni, si fa fatica a contarli. Ne sono morti, ad esempio, otto a maggio 2020 a Kunduz, vittime di una rappresaglia dei talebani contro il governo che aveva lanciato una nuova offensiva. Nello stesso anno, nella provincia del Takhar, i talebani attaccavano una base dell'esercito afghano, uccidendo almeno 34 soldati. A Doha si parlava di pace, nei confini dell'Afghanistan la guerra non finiva, semmai si intensificava. Nel 2019, invece, nella provincia meridionale Helmand ne furono uccisi 27. Con loro furono ammazzati, in un attacco prontamente rivendicato, 7 poliziotti.

Più volte i cronisti sono stati vittime della violenza talebana. Nel 2018 ne sono stati uccisi 15. A febbraio 2019, invece, sempre nella provincia del Takhar, un gruppo armato conduceva un assalto contro una radio e sparava contro un giornalista e uno speaker, ammazzandoli, prima di darsi alla fuga. Entrambe le vittime avevano 20 anni. Ne aveva appena tre in più Mina Khairi, giornalista di Ariana News tv, ammazzata con la madre e altre due persone a giugno 2021, era la quinta reporter a essere uccisa dall'inizio del 2021. Non l'ultima. Pochi giorni dopo veniva ucciso al confine con il Pakistan Danish Siddiqui, giornalista della Reuters. Aveva 38 anni ed era indiano.

Le vittime civili, in questi lunghi anni, sono decine di migliaia. 90mila solo tra il 2009 e il 2020. Ai morti si aggiungono gli ostaggi, nella provincia di Kunduz, ad esempio, in un giorno del 2018 i talebani hanno fermato tre autobus e preso in ostaggio più di cento persone. Donne, bambini, uomini, passati per caso in un luogo in cui i combattenti cercavano dipendenti pubblici da catturare. Ed erano su un autobus anche le 35 persone, soprattutto minori e donne, uccisi da un'esplosione mentre passavano all'alba di un mattino di luglio 2019 nella provincia di Farah. La loro vita è finita così, con lo scoppio di una bomba, mentre semplicemente stavano percorrendo un'autostrada.

La violenza dei talebani è stata esercitata in varie zone del Paese. Indipendentemente dal periodo, in provincia come in città. La stessa capitale, Kabul, non è stata mai risparmiata. A voler citare solo qualche caso, possiamo ricordare l'esplosione di una bomba davanti al ministero della difesa, il primo luglio 2019, che causò la morte di almeno 16 persone e più di 100 feriti. L'attacco fu rivendicato dai talebani, a differenza di quello che era stato messo in atto l'anno prima, il 12 aprile 2018, quando un gruppo di uomini armati aveva fatto irruzione nell'hotel Intercontinental, dove alloggiavano gli stranieri. Ci furono morti e feriti. I testimoni raccontarono di persone gettate dalla finestra al grido di "Allah u Akbar". L'ennesimo episodio di orrore, come ce ne sono stati tanti - tantissimi - in questi anni nel Paese asiatico, ad opera dei talebani. Non quelli di 20 anni fa, ma più o meno gli stessi che in queste settimane hanno ripreso il controllo del territorio afghano.

Ecco che allora, a ripercorrere anche solo qualche stralcio del lungo elenco delle azioni violente messe in atto dai talebani negli ultimi anni risulta un po' difficile immaginare che abbiano cambiato volto, come tanti in questi giorni provano a sostenere.

Il mostrarsi meno agguerriti agli occhi del mondo pare solo un tentativo di acquistare un minimo di legittimazione internazionale, in vista della formazione di un governo che, essendo tale, qualche relazione diplomatica ambisce ad averla.

Eppure, mentre il portavoce Zabihullah Mujahid in conferenza stampa a Kabul parlava di "perdono", di inclusione delle donne nel governo, nelle province azioni violente ai danni dei cittadini, soprattutto di quelli sospettati di aver collaborato con gli occidentali, erano già avvenute. Continuano ad avvenire, tutti i giorni.

Quanto alle donne, credere alle parole pronunciate in conferenza stampa risulta davvero difficile. Nelle città alcune, poche, provano a resistere - per quel che è possibile - a conservare almeno una parte dei loro diritti, ma nelle provincie in tante li hanno già persi. Senza voler scendere in dettagli violenti e dolorosi, basti pensare che in alcuni villaggi i talebani hanno chiesto l'elenco delle nubili e delle vedove dai 12 ai 40 anni, per darle in spose ai combattenti. A dispetto della millantata moderazione e di uno sbandierato cambiamento, tutti questi elementi ci dicono che i talebani no, non sono cambiati. Hanno solo capito che della legittimazione degli altri Paesi hanno bisogno. E l'Occidente, prima di riconoscere il loro regime, dovrebbe tenerne conto.