di CLAUDIO PAUDICE

Per alcuni il suo valore è di un trilione di dollari, per altri addirittura di tre trilioni. Oro, argento, rame, ferro, zinco, mercurio, terre rare: è il tesoro nascosto nel sottosuolo dell’Afghanistan, la “tomba” degli imperi che nel corso della storia si sono addentrati nel suo aspro territorio con la speranza di trafugarne l’immenso patrimonio minerario per poi ritrovarsi quasi sempre a mani vuote. Alessandro Magno rimase affascinato dalle pietre preziose che già da secoli prima del suo arrivo venivano ricavate dall’inospitale roccia afghana. Più di duemila anni dopo, in un rapporto del Pentagono del 2010, la terra oggi tornata sotto il controllo dei talebani venne definita “l’Arabia Saudita del litio”, uno dei metalli oggi più richiesti perché indispensabile all’industria delle batterie elettriche, settore unanimemente considerato volano dello sviluppo tecnologico e sostenibile nei decenni a venire.

La domanda sorge spontanea: perché gli Stati Uniti, dopo vent’anni di occupazione, vite umane sacrificate e miliardi di dollari bruciati, e in un contesto mondiale di grave carenza di materie prime, hanno deciso abbandonare l’Afghanistan in modo così caotico senza aver sfruttato “l’immenso potenziale” (come disse l’ex generale e comandante delle operazioni militari David Petraeus) nascosto nelle viscere del Paese? Stupidi gli americani e furbi i cinesi che, da sempre predominanti nel mercato di alcune materie critiche, si sono subito accreditati con il rinato regime talebano nella speranza di avviare “relazioni amichevoli e di cooperazione” per la ricostruzione? “Secondo il Sigar (Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction), gli Stati Uniti non hanno avuto nel corso degli anni una vera strategia per lo sviluppo dell’economia afghana”, spiega all’HuffPost Alberto Prina Cerai, giovane studioso di sviluppo sostenibile e geopolitica delle risorse presso la Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (SIOI) e contributor della rivista Pandora.

“Va detto che vent’anni fa non venivano registrate le criticità di oggi nel reperire alcune risorse. Inoltre, fino a 15 anni fa, i rapporti commerciali con chi deteneva gran parte di queste riserve, la Cina, erano certamente più stabili di quelli odierni”. In pratica non c’era una percezione dell’importanza strategica di alcuni materiali che fa dell’Afghanistan un forziere ancora inviolato. Ancora oggi alcune aree del Paese restano inesplorate dalle indagini geologiche, ma quelle finora studiate bastano da sole a definire un tesoro inestimabile di pietre e metalli. Ci sono più di due milioni di tonnellate di minerale di ferro, e un milione e mezzo di tonnellate di terre rare, i 17 minerali oggi indispensabili per una vastità di prodotti di largo consumo come computer, schermi video, telefonini, apparecchi fotografici, fibre ottiche, marmitte catalitiche.

Oggi la Cina, pur detenendone il 35% delle riserve sfruttabili, può vantare il 90% circa della produzione mondiale, integrando di fatto il ruolo del monopolista. Basti pensare che le forniture di Pechino assorbono da sole l′80% del fabbisogno degli Stati Uniti e oltre il 90% di quello europeo, che si aggira intorno alle 20mila tonnellate l’anno. Secondo l’Agenzia internazionale per l’energia (IEA) in uno scenario di sviluppo sostenibile, la domanda di terre rare potrebbe crescere di sette volte nei prossimi vent’anni, se non di più (ma dipenderà dalle scelte prese dall’industria delle turbine eoliche). Nel 2012 scoppiarono forti tensioni diplomatiche perché la Repubblica Popolare destinò all’export una quota di 30mila tonnellate a fronte di una domanda di 60mila. In passato la Cina ha più volte usato la minaccia di blocco delle esportazioni come arma di ritorsione per questioni diplomatiche e strategiche.

Ma nel sottosuolo afghano c’è anche molto altro. Ci sono almeno 60 milioni di tonnellate di rame, indispensabile per la produzione di cavi elettrici o per i pannelli solari, che quest’anno ha battuto il suo record storico sui mercati mondiali toccando la valutazione di 10mila dollari a tonnellata. E soprattutto una quantità di litio e cobalto così vasta da avere per l’Afghanistan lo stesso valore che ha il petrolio per l’Arabia Saudita. Nel 2020 l’Unione europea ha inserito il litio tra le 30 materie prime reputate ‘critiche’ per la sua indipendenza energetica, insieme al cobalto, alla grafite e al silicio. Il litio vede diversi impieghi ma quello più importante è certamente nella produzione di batterie elettriche oggi sempre più richieste per la transizione green delle economie avanzate.

Secondo l’IEA, in uno scenario di politiche sostenibili la domanda mondiale di litio dovrebbe crescere di oltre 40 volte entro il 2040. E il suolo afghano ne custodirebbe quantità analoghe a quelle presenti in Bolivia, il più grande serbatoio al mondo. Non è finita, perché sotto la terra afghana ci sarebbero anche una grande quantità di petrolio, pari all’incirca a un miliardo e ottocentomila barili, e di gas naturale pari a 15 trilioni di metri cubici. E poi ancora, pietre come lapislazzuli, smeraldi, rubini, tormaline, e marmo.

Quando gli americani arrivarono in Afghanistan buona parte del lavoro di raccolta e ricognizione delle informazioni sulle risorse minerarie ed energetiche presenti nel suolo era stato fatto dai sovietici a partire dalla fine degli anni ’60. Gli scienziati afghani furono saggi nel mettere insieme le mappe e nasconderle durante gli anni di conflitti interni che seguirono al ritiro dell’Urss nel 1989. Quando, dopo il 2001, i nuovi occupanti le ritrovarono, erano in condizioni pessime, rimaste spiegazzate per anni, sbiadite o a brandelli, ma fortunatamente leggibili, come riporta lo United States Geological Survey (Usgs), l’agenzia scientifica del Governo degli Stati Uniti che ha lavorato a stretto contatto con l’omologa afghana (Ags) negli ultimi vent’anni.

Su un Pil ufficiale che sfiora a stento i venti miliardi, le principali fonti di finanziamento delle fazioni locali arrivava da proventi illeciti. Basti pensare che se l’export di oro negli anni è arrivato a valere decine e solo talvolta centinaia di milioni di dollari, la produzione sommersa di oppio che nemmeno le truppe americane sono riuscite a debellare, era arrivata a sfiorare nel 2017 le 10 mila tonnellate, per un valore stimato di 1,4 miliardi di dollari e un giro d’affari complessivo da 6,5 miliardi l’anno, secondo l’Ufficio Onu per il controllo della droga e la prevenzione del crimine (Unodc). Oggi l’industria estrattiva vale il 20% dell’export afghano, e solo il 2,9% del suo prodotto interno lordo. “Gli investimenti nell’industria estrattiva, che hanno un grande potenziale, sono stati frenati dalla crescente insicurezza”, ha scritto in un recente report il Fondo monetario internazionale.

Buona parte delle estrazioni , soprattutto di pietre, resta poi nelle mani di gruppi locali in guerra con altri. Come scrive nel suo rapporto del 2018 l’agenzia geologica del governo americano, l’Afghanistan potrebbe essere ben lontana dallo sviluppare la sua industria mineraria “a causa del deterioramento della sicurezza, l’incertezza politica, la carenza di infrastrutture”. L’ex presidente afghano Ashfar Ghani profetizzò nel 2020 per l’Afghanistan quella “maledizione delle risorse” che dilania i Paesi ricchi di materie prime ma incapaci di farle fruttare economicamente. “L’attenzione politica e mediatica su alcune risorse minerarie è dovuta particolarmente alla congiuntura di questi anni, segnata da una carenza di alcune materiali critici all’inizio della transizione ecologica e digitale”, spiega Prina Cerai.

“Gli Stati Uniti hanno provato a favorire la nascita di un ambiente sano che favorisse investimenti esteri privati, ma il Paese ancora oggi non è riuscito ad attrarli. Basti pensare che ai tempi dell’occupazione sovietica solo due compagnie estrattive riuscirono a essere pienamente operative, ma si trattava di imprese governative, a dimostrazione che serve uno Stato in grado di fare scudo di fronte agli enormi rischi che affrontano”. Il primo problema a cui vanno incontro le imprese estrattive è chiaramente quello legato alla sicurezza. Ma ci sono anche altri fattori determinanti che hanno scoraggiato gli investimenti. “Diverse aree dell’Afghanistan vanno incontro periodicamente a carenze d’acqua, che è bene indispensabile in molti processi di trasformazione e raffinazione dei minerali”, continua Prina Cerai. “Il settore è uno dei più energivori e la penuria d’acqua come l’assenza di una adeguata infrastruttura elettrica sono fattori molto limitanti per progetti su scala industriale. A questo bisogna aggiungere la quasi totale assenza di infrastrutture di trasporto che praticamente isola il Paese”.

Un altro aspetto è legato alla mancanza di un quadro legislativo chiaro, senza il quale le compagnie difficilmente tendono a investire. “Nel settore estrattivo bisogna perseguire un equilibrio complesso nel regime fiscale. Da una parte le entrate fiscali devono essere sufficienti per essere reinvestite in altri settori dell’economia, dall’altro non devono essere troppo onerose per le aziende che potrebbero dirottare altrove i loro investimenti, dove l’ambiente fiscale è più conveniente”, spiega Prina Cerai. “A questo bisogna aggiungere il profondo gap di competenze delle autorità afghane, che si sono registrate persino nel Ministero competente del governo. Diversi indici del settore in base ai quali le imprese del settore orientano i loro investimenti definiscono un ambiente poco attrattivo, simili ad alcuni Paesi africani, per conoscenze e competenze manageriali presenti nell’area”.

Il risultato è che l’Afghanistan, con metà della popolazione sotto la soglia di povertà, è ancora incapace di trarre frutto dalle sue immense risorse e per tirare avanti ha bisogno di ingenti aiuti stranieri a sostegno della sua economia, come avvenuto durante l’occupazione americana pur con una graduale diminuzione nel corso degli anni. Prima della riconquista del Paese da parte dei Talebani la previsione era già di un calo del sostegno economico di circa il 20% rispetto al precedente periodo d’impegno (15,2 miliardi di dollari nel periodo 2016- 2020). Ma alla conferenza dei donatori a Ginevra di novembre scorso venne chiarito che gli impegni erano legati al rispetto di alcune condizioni, come la lotta alla corruzione e soprattutto lo sviluppo di rapporti di pace e sicurezza nel Paese. Un piano che, con l’arrivo dei talebani e nel clima di incertezza destinato a durare nei prossimi mesi, rischia di essere ulteriormente ridimensionato.

Il Fondo Monetario ha già congelato gli aiuti di 455 milioni di dollari che sarebbero dovuti arrivare questa settimana. Ora si è fatta avanti la Cina che, secondo diversi analisti, potrebbe essere interessata allo sfruttamento delle risorse afghane. La politica economica estera di Pechino, come ben noto ormai, mira prima di tutto alla costruzione di nodi infrastrutturali, vie di trasporto e collegamenti logistici che comunemente rientrano sotto il nome di Nuova via della Seta. Lo sfruttamento delle risorse in cambio dei suoi lauti investimenti infrastrutturali non è però una ricetta che ha funzionato sempre. E in passato non sembra aver funzionato nemmeno in Afghanistan. “Sono consapevole che Pechino proverà a sfruttare i trilioni di dollari di ricchezza mineraria in Afghanistan”, ha detto l’ex comandante Petraeus al Wall Street Journal, spiegando che i cinesi potrebbero - ma non è scontato - avere vita più facile rispetto al passato senza i “talebani che ti sparano contro”.

Nel 2007 la compagnia statale China Metallurgical Group Corp (Mcc) ottenne il diritto di estrazione per il secondo giacimento più grande al mondo di rame, quello di Mes Ayak, un sito dal grande valore archeologico e religioso, oltre che minerario, a venti miglia da Kabul. Nel 2008 i cinesi firmarono un contratto per i diritti di estrazione per i successivi 30 anni per una concessione dal valore di tre miliardi di dollari ma le operazioni si fermarono subito a causa dell’alta instabilità dell’area. “I talebani spararono razzi e colpi di mortaio contro i cinesi, e alla fine furono costretti a chiudere il sito”, ricorda Petraeus. Ora, riporta Global Times, Mcc sarebbe intenzionata a riprendere il progetto, una volta che la situazione afghana si sarà stabilizzata e il potere talebano rinsaldato. “Ma bisogna tenere presente il modo in cui la Cina fa queste cose”, ha spiegato l’ex Comandante Usa, “entra e porta i suoi lavoratori cinesi, i suoi materiali da costruzione, il suo design, e persino il suo cibo. Ci vorrà molto tempo prima che i cinesi possano ricavare entrate”.

E non è detto che siano interessati a farlo. “Se Pechino vorrà investire in Afghanistan si troverà di fronte alle stesse difficoltà incontrate dagli americani. Prima di tutto quella dell’instabilità dell’area, dove sono presenti non solo i talebani ma anche altri gruppi rivali che contribuiscono a rendere la situazione politica molto frammentata”, continua Prina Cerai. D’altro canto, “la Cina dispone già di grandi riserve di alcuni materiali presenti nel sottosuolo afghano. E i suoi investimenti tendono solitamente a orientarsi su stadi più alti della catena del valore, come quello della trasformazione e della raffinazione”. Non tanto quello iniziale, ovvero quello estrattivo, che può svolgere tra le “mura domestiche”. Mancano poi valide vie di collegamento.

E pensare che grazie una piccola lingua di terra, Cina e Afghanistan sono confinanti: il corridoio del Wakhan, largo non più di 60 chilometri e lungo 250, è un’area che fa parte dell’altopiano del Pamir, “il tetto del mondo”, in gran parte ad alta quota, oltre i quattromila metri. Sebbene in passato facesse parte dell’antica via della seta, si tratta di un tratto di terra aspro, tortuoso e inaccessibile da rendere ancora oggi impraticabile lo sviluppo di valide vie di collegamento tra Cina e Afghanistan. L’Afghanistan non dispone di una rete viaria dignitosa, né ferroviaria, e non ha sbocchi sul mare. Non ha una infrastruttura energetica capace di garantire un costante approvvigionamento per il potenziale tessuto industriale. Non dispone di una classe di governance con competenze manageriali e know-how nell’economia estrattiva, né di una cornice legale che possa favorire gli investimenti esteri senza i quali nessun progetto di sviluppo economico potrebbe funzionare.

“Come ripetono spesso gli esperti del settore, avere ingenti quantità di risorse nel sottosuolo non vuol dire che possano sempre essere sfruttate”, conclude Prina Cerai. Queste carenze, per essere colmate, richiederebbero una mole di investimenti esteri per le infrastrutture e un grande capitale politico, propedeutici allo sviluppo di attività su scala industriale, che solo un contesto di forte stabilità potrebbe favorire. Un insieme di fattori che rendono bene l’idea della complessità dietro i sogni di creazione di un’industria estrattiva in Afghanistan all’altezza delle risorse che custodisce. E che ne fanno un forziere maledetto, ricco di tesori ma senza chiave per aprirlo.