di ALESSANDRO GIOVANNINI

La vicenda afghana può essere osservata da molti punti di vista, ma ve n’è uno che forse li raccoglie tutti: quello del tempo. Il tempo dell’Occidente come modello espressivo della migliore forma di Stato, della migliore economia, della cultura più inclusiva, della più “umana” fra le società è finito. La guerra nella terra dei talebani è molto più di una resa dei conti fra etnie. Ed è molto più di una resa dei conti fra Occidente e Stato islamico, Stati Uniti d’America e terroristi. È la fine di un’epoca segnata dalla supremazia culturale dell’Occidente sul resto del mondo, è il tramonto di un modello geopolitico. Il re Occidente è nudo, allora? In parte lo è. Non come civiltà in sé considerata. Misurata con il metro delle libertà, con quelli della gestione del potere politico e della diffusione del benessere economico, col metro costituzionale, dei diritti e delle leggi, della tutela della salute e dell’istruzione, infatti, essa rimane la forma di civiltà più evoluta che la storia moderna abbia prodotto.

Certo, è un modello ancora imbevuto di iniquità, ma tutto sommato meno ingiusto e soffocante di altri. E allora per quale motivo il re Occidente si deve considerare nudo? La nostra civiltà non detiene più lo scettro della primazia o addirittura della supremazia. Ha perso il trono delle nazioni ed è divenuta, quali che siano i motivi, una delle tante civiltà. La modernizzazione ha prodotto effetti indesiderati, proprio per chi – l’Occidente stesso – ne avviò l’esportazione. Per una sorta di eterogenesi dei fini, questa ha risvegliato le coscienze dei popoli ai quali era stata proposta o imposta la modernizzazione stessa, ed ha finito per riaccendere in loro il fuoco culturale, religioso, sociale e finanche tribale che li aveva accompagnati nei secoli. Le radici più antiche sono riaffiorate con prepotenza, e con altrettanta prepotenza quei popoli in esse ora cercano risposta ai loro bisogni, ad iniziare da quelli economici.

Le civiltà asiatiche e mediorientali stanno acquisendo sempre più forza. Gli Stati fondati sulla legge coranica – interpretata e applicata in maniera più o meno ortodossa, qui poco importa – stanno espandendosi con la tenacia non tanto o soltanto del denaro, quanto con quella culturale, espansione accompagnata dalla forza militare, talvolta da quella terroristica, e da un’esplosione demografica incontenibile. Come ha scritto lucidamente Samuel Phillips Huntington in Lo scontro delle civiltà, ormai “emerge un ordine mondiale fondato sul concetto di civiltà: le società culturalmente affini tendono a cooperare tra loro e i vari Paesi si raccolgono intorno agli Stati guida della propria civiltà”. Un mondo multipolare ed a più civiltà non è il futuro, quel che sarà, ma è quel che è, adesso.

D’altra parte, il ritiro degli Stati Uniti dai Paesi islamici, avviato dalla presidenza Trump e proseguito da quella Biden, ne è la dimostrazione più plastica. Perfino le lacrime versate in diretta mondiale dal presidente in carica rappresentano la fine di un’epoca, quella, appunto, della supremazia della civiltà occidentale. Cosa accadrà da ora in poi è difficile da prevedere, anche per l’Occidente. Un auspicio è opportuno formularlo: che dalla presa di coscienza della chiusura di un ciclo storico si passi a politiche risolute di protezione della nostra civiltà. Accettare la fine della sua universalità impone, infatti, di adoperarsi per proteggerne l’identità, coscienti che i blocchi di potere rappresentativi di altre civiltà lo stanno già facendo. Dobbiamo farlo anche noi, non per provocare uno scontro, ma per tentare di prevenirlo. Senza retorica e falsi miti.