Acciaio, a Terni ultimo baluardo italiano. I tedeschi di Thyssen lasciano, in corsa 4 gruppi, favoriti i 2 italiani, Arvedi e Marcegaglia. Decisivo il prossimo mese di settembre 2021.

Nuvole sui cinesi, disinteresse dei coreani, il derby padano fra Cremona e Mantova. Quanto potrà pesare il precedente Ilva per Marcegaglia?

Il quadro delll’acciaio in Italia è fosco: i tre principali produttori di acciaio in Italia hanno perso, solo nel 2020, attorno a mezzo miliardo di euro di gestione corrrente.

Il bilancio dell’esercizio 2020 dell’ex Ilva ha chiuso con un un passivo di 265 milioni di euro (ha prodotto solo 3,35 milioni di tonnellate d’acciaio rispetto agli 8 previsti dal piano industriale). Nello stesso 2020 Terni ha lasciato sul campo 151 milioni di euro . La Jsw Steel Italy Piombino (proprietà della multinazionale indiana, Jindal) ha perso quasi 60 milioni di euro.

“Se chiude l’acciaieria, chiude l’intera città” e per tutta l’Umbria è il ritornello che si sente a Terni chiacchierando non solo con sindacalisti o operai ma anche con commercianti o semplici cittadini. L’acciaieria dà lavoro a 2.300 famiglie e contribuisce da sola a un bel pezzo del Pil dell’intera regione. Gianni Del Vecchio descrive la situazione per il sito Huffington Post.

Ast- Acciai Speciali Terni, impianto industriale, e attualmente è nelle mani della multinazionale ThyssenKrupp. Il gruppo tedesco  nella scorsa primavera ha deciso di metterla in vendita. In gara ci sono due gruppi stranieri (i cinesi di Bao Steel e i coreani di Posco) e due italiani (Arvedi e Marcegaglia), con gli analisti che scommettono su un testa a testa finale fra i pretendenti italiani. 

Ma quello ternano, aggiunge Del Vecchio, è anche un match chiave nel più ampio campionato dell’acciaio nazionale. Il governo infatti segue molto da vicino una vendita che è privata ma che rischia di avere importanti ricadute pubbliche. Alle crisi infinite dell’ex-Ilva di Taranto e della Jsw di Piombino, non si può aggiungere anche una in Umbria. Con tre poli siderurgici che lottano per sopravvivere e hanno – chi più o chi meno – bisogno dell’aiuto statale.

Il premier Draghi e il ministro Giorgetti (responsabile del dossier) non possono permettersi l’apertura di un altro fronte caldo, pena il rapido passaggio dalle speranze di rilancio alle certezze di funerale per l’acciaio made in Italy.

Un vero peccato: il 2021 sarebbe l’anno ideale per poter passare dalle perdite agli utili nonché per rinnovare i vecchi impianti energivori ad altoforni con un impatto ambientale più ridotto.

Il mercato dell’acciaio infatti, spiega Del Vecchio, quest’anno è in ripresa, grazie al balzo delle quotazioni: il prezzo è salito del 40% in tre mesi fino a sfiorare i 1.890 dollari alla tonnellata a fine luglio, seguendo più o meno l’andamento di altre materie prime. La produzione siderurgica mondiale – secondo i dati della World Steel Association – rimane in aumento sui primi sette mesi del 2020 caratterizzati da molteplici lockdown: l’incremento è del 12,4%. E quella italiana è andata anche meglio: da gennaio a luglio l’aumento è stato del 26,1%, riuscendo a recuperare i valori pre-pandemia. Insomma, se si vuole rilanciare l’acciaio made in Italy il momento è questo: ora o mai più.

Per l’Ast di Terni, il processo di vendita entra nel vivo adesso: entro ottobre dovranno pervenire alla ThyssenKrupp le offerte vincolanti. Dopodiché partirà la trattativa one to one e presumibilmente per inizio anno si perfezionerà l’acquisizione.

Al momento la partita finale sembra ristretta al lembo di Valle Padana fra Cremona (Arvedi) e Mantova (Marcegaglia). E nel testa a testa potrebbe anche contare il “precedente Ilva” che riguarda il gruppo guidato dalla ex presidente Confindustria Emma e da suo fratello Antonio.

C’è chi ancora ricorda come finì  la cordata fra ArcelorMittal e il gruppo Marcegaglia messa assieme nel 2017 per rilevare e rilanciare l’Ilva. L’anno successivo l’Antitrust europea obbligò l’azienda mantovana ad abbandonare l’acquisizione e l’acciaieria finì nelle mani del gruppo indiano, con il risultato che tutti conosciamo soprattutto a carico delle casse pubbliche.

Per Marcegaglia tuttavia, ricorda Del Vecchio, l’operazione fu comunque positiva: alla stregua di un risarcimento per la mancata partecipazione, ArcelorMittal si impegnò l’anno seguente a un triplice compenso ai mancati soci mantovani: 25 milioni per rilevare la quota della cordata di Am Investco, altri 32 milioni per acquistare la quota di minoranza nella società tedesca Bremen e la sottoscrizione di contratti di fornitura d’acciaio a condizioni di favore (i Marcegaglia infatti sono attualmente specializzati nella lavorazione e trasformazione dell’acciaio invece che nella produzione). Tutto sommato un buon affare per la famiglia mantovana, i cui dettagli si leggono nero su bianco sul bilancio 2018 del gruppo. Affare meno buono – conclude Huffington Post- per il bilancio pubblico.