di Fabio Porta

Un rapporto speciale, quello che lega l’Italia all’America Latina, che affonda le proprie radici lontano nei secoli e che è fatto di luci e ombre, come forse è inevitabile in tutte le relazioni importanti per la vita delle persone come per quella di popoli e nazioni.

Una storia che s'inizia molti secoli prima della nascita dello Stato italiano, basti pensare alle spedizioni di navigatori come Amerigo Vespucci o alla napoletana Teresa di Borbone, imperatrice del Brasile.   Anche lo storico flusso migratorio italiano verso il Sudamerica, che ha fatto di questa regione del mondo quella più “italiana” del pianeta in ragione della presenza di un numero di nostri discendenti pari agli italiani che vivono dentro ai confini nazionali, ha origine negli anni pre-unitari facendo sì che – come ebbe a ricordare il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella incontrando la nostra collettività in Argentina – gli italiani si riconoscessero tali all’estero prima ancora della fondazione del nostro Stato nazionale.

Eppure, nonostante tutto ciò, troppe volte retorica e strabismo hanno finito per depotenziare un rapporto che avrebbe dovuto e potuto essere valorizzato molto di più e in tutti i settori, da quello politico-istituzionale a quello economico e commerciale.   Troppo spesso proprio la straordinaria presenza della nostra comunità in quasi tutti i Paesi del continente si è rivelata non un vantaggio ma un alibi alla costruzione di una relazione privilegiata e strategica; o quante volte abbiamo preferito dare per scontata una relazione che grazie ai profondi vincoli di sangue pensavamo potesse camminare in maniera inerziale sui binari di un’amicizia cordiale e fraterna ?   Ciò in alcuni casi ha impedito di valorizzare il vero potenziale che poteva provenire all’Italia dalla costruzione di una relazione strutturata con le nuove generazioni di italiani che erano nate in questa parte del mondo, affidando alla nostalgia e a logiche assistenzialiste una cooperazione che perdeva così i suoi aspetti innovativi a scapito di quelli amicali o addirittura clientelari.

Anche le relazioni politiche o istituzionali non sono state esenti da questi eccessi di emotività o di retorica, come nel caso della infatuazione di certi settori della sinistra italiana rispetto ad alcuni processi rivoluzionari, anche quando questi sono poi scaduti nell’autoritarismo o nelle mille sfumature della dittatura; mi riferisco al sostegno del regime di Maduro in Venezuela o di Ortega in Nicaragua, come anche alla difesa acritica del sistema cubano.   Un innamoramento manicheo ben diverso dal sostegno coraggioso e coerente di tutte le forze politiche italiane alla lotta politica contro le dittature sudamericane del secolo scorso: allora il sostegno alle opposizioni democratiche proveniva dalla Democrazia Cristiana di  Moro, dal Partito Socialista di Craxi e dal Partito Comunista di Berlinguer, attraverso una sana competizione che si sarebbe poi rivelata fondamentale per rinsaldare i rapporti con questi Paesi negli anni della ri-democratizzazione.

Un punto di equilibrio negli ultimi cinquanta anni è stato invece rappresentato, sul versante istituzionale, dal ruolo dell’Istituto italo-latinoamericano (l’IILA), nato dall’intuizione lungimirante di un politico democristiano, Amintore Fanfani, e sostenuto in maniera altrettanto intelligente da socialisti e comunisti italiani; mentre, su quello sociale, è opportuno ricordare il ruolo costante di raccordo con il mondo del lavoro sudamericano e le collettività italiane svolto dalle organizzazioni sindacali, così come quello (spesso poco visibile ma straordinariamente fecondo) dei mille progetti di cooperazione nati all’interno delle missioni cattoliche che hanno portato nel corso di questi anni migliaia di volontari, religiosi e laici, nel continente.

E’ questa la “nostra” America Latina: l’unica regione al mondo con un nome e un cognome di origine italiana, che probabilmente meriterebbe un salto di qualità nel suo rapporto con l’Italia.  Una sfida per chi, come noi, vive a cavallo tra questi due mondi.