di Alessandro De Angelis

In fondo, era prevedibile. È sempre stato così: le elezioni del capo dello Stato sono, da che mondo è mondo, un "Great game" che condiziona discussione, posizionamenti e dinamiche ben prima dell'apertura della fatidica urna. La novità rispetto a ciò che è sempre stato e sempre sarà – previsioni, ambizioni, delusioni dei tanti aspiranti papi che escono cardinali dal conclave, insomma tutte le delizie dei cronisti politici – stavolta è il contesto.

Diciamola brutale: siamo già dentro una curvatura "presidenzialista" del sistema politico e della democrazia italiana. L'Italia, per come si è dispiegata la crisi, è, in questo momento, il paese dei "due presidenti", Draghi e Mattarella. Loro si occupano dell'interesse generale. Attorno un sistema partitico ancora dentro il default che ha reso necessaria la soluzione di emergenza: il Pd che si interroga se sia il "suo governo" quello dove esprime quattro ministri, Salvini che, dilaniato tra partito del Nord e competizione con la Meloni, in Parlamento soffre su ciò che ha approvato in cdm, la crisi di identità dei Cinque stelle.

Insomma, dopo oltre sei mesi di governo Draghi, nessun partito o schieramento ha ancora metabolizzato fino in fondo il lutto e, di conseguenza, elaborato una agenda basata su una realistica visione dell'interesse nazionale. Si chiama, banalmente, crisi di sistema, di cui la soluzione di emergenza è l'effetto, non la causa. E l'avvio di discussione sul prossimo capo dello Stato, tutta tattica e tutta improvvisata, risente proprio dell'incertezza del contesto. Chi come Bettini propone Draghi, indipendentemente dalle conseguenze – il Pnrr, i soldi dell'Europa, la conseguente tenuta del paese – per risuscitare nelle urne l'alleanza giallorossa. Chi, come Salvini, fa un ragionamento speculare sull'altro fronte. Chi come Conte ancora non ha chiare le idee consapevole che il suo gruppo parlamentare non vuole il voto. Chi, come Letta, pensa che Draghi debba rimanere al governo e Mattarella al Colle.

È il trionfo della leggerezza. Ma, al tempo stesso, la conferma, nel prospettare un presidente o l'altro, di quella torsione irreversibile del sistema politico italiano in chiave presidenziale. Il che, magari, ha anche una logica, dovuta all'incastro che si è creato. Domanda: può esistere una maggioranza sul Colle diversa dalla maggioranza di governo, senza che il governo salti un minuto dopo? Difficile. Altra domanda: può questa maggioranza di governo compattarsi sul Quirinale su nomi diversi rispetto a Draghi o Mattarella? Difficile anche questo.

Però, al tempo stesso, entrambi i nomi hanno due problemi di non poco conto proprio in termini, scusate la ripetizione, sistemici. L'uno ha il governo, che si fonda su forza, autorevolezza e credibilità europea di Draghi. Non è banale, in caso di sua ascesa al Colle, immaginare la stessa maggioranza con un altro inquilino a palazzo Chigi. E non è banale che il Parlamento lo voti per poi auto-sciogliersi, come qualcuno immagina, per ragioni di mera sopravvivenza prima ancora che per le nobili ragioni legate a un cronoprogramma di ricostruzione nazionale destinato, nell'eventualità, a saltare.

L'altro, come confermano le sue perplessità, più volte pubblicamente espresse, ha la Costituzione. Che quell'ipotesi (il bis) non la vieta – è già accaduto con Napolitano – ma in quell'ipotesi c'è un oggettivo stravolgimento dell'attuale assetto, per come è stato pensato e praticato in una lunga consuetudine repubblicana. Sarebbe la più grande riforma costituzionale de facto mai varata in Italia.

In tempi non sospetti, Mattarella ha già espresso, da costituzionalista, i suoi dubbi sul considerare ordinaria la rielezione di un capo dello Stato perché sette anni sono già un tempo congruo e raddoppiarli – sulla carta stiamo parlando di 14 anni, un unicum al mondo anche rispetto ai sistemi presidenziali puri - significa portare ai vertici delle istituzioni una anomalia. L'occasione fu una riflessione sulla proposta che l'ex capo dello Stato Antonio Segni avanzò agli inizi degli anni Sessanta, che riguardava l'opportunità di introdurre in Costituzione la non ri-eleggibilità del capo dello Stato perché "il periodo di sette anni è sufficiente a garantire una continuità nell'azione dello Stato". Rispetto ai tempi di Segni l'eccezione si è già verificata con il bis, sia pure a tempo, di Napolitano, un unicum, si disse, anche allora determinato dall'emergenza. Due eccezioni rischiano di diventare regola e di alimentare, per il futuro, quel "sospetto che qualche atto del capo dello Stato sia compiuto al fine di favorirne la rielezione", che stava proprio alla base della idea di Segni.

Il paradosso è proprio questo. Per come ha gestito il suo settennato, per il rapporto che ha instaurato col paese, per l'affettuosa saggezza che emana, Mattarella è percepito, non solo da Roberto Benigni, come l'uomo migliore per il ruolo egregiamente interpretato finora. Per come si è dispiegata la crisi, il bis dell'uomo migliore è la soluzione più hard in termini istituzionali. Non è da escludere che, di fronte a una impasse di straordinaria gravità, con i partiti che non riescono a mettersi d'accordo su un nome, l'ennesimo scenario di emergenza nel quale garantire la continuità di un governo di emergenza, l'effervescenza dei mercati, Mattarella sia "costretto" a piegarsi alla ragion di Stato. Tutto questo però confermerebbe, dopo dieci anni di governi non espressione della volontà popolare, soluzioni di emergenza, un bis al Colle in nome delle riforme (andato male) che il sistema è deflagrato e, incapace di produrre soluzioni fisiologiche, si autoalimenta di logiche emergenziali.

Finché è Mattarella, bene, ma la logica in termini astratti è pericolosa. E ancora: lo esporrebbe alle temperie della politica, ragionamento che al Colle hanno ben presente. Domanda: ammesso che tutti vogliano votarlo (non può certo andare come presidente di parte) siamo sicuri (altro ragionamento che fanno i frequentatori del Quirinale) che possa lasciare magari tra un paio d'anni se al governo ci sono Salvini e la Meloni, lasciando campo libero all'elezione di un presidente espressione di un altro universo di valori confliggente da quelli da sé incarnati? Insomma, la questione è delicata. Parecchio delicata. Ancora una volta si pattina sul default, basta saperlo.