Di Franco Manzitti

Marta Vincenzi, la sua sembrava una storia giudiziariamente finita. Marta Vincenzi, sindaco di Genova dal 2007 al 2012, condannata in via definitiva. Prima a cinque poi a tre anni e mezzo di carcere, convertibili in servizi sociali, per non avere chiuso le scuole di Genova il 4 novembre del 2011, durante un’allerta meteo di grave entità.

Morirono sei persone, tra cui due bambine in tenera età, intorno a una scuola per lo straripamento catastrofico del rio Fereggiano. Un torrente che scorre nel cuore di Genova e poi si infila in un tombamento, che sfocia nel più importante corso d’acqua di Genova, il Bisagno. E che ora è stato deviato in un tunnel sotterraneo, costruito in quattro anni e già in funzione salvifica.

Si attendeva solo la decisione del Tribunale di Sorveglianza, favorevole a convertire la pena nei servizi sociali (che la Vincenzi già presta in Valpolcevera, la sua delegazione di residenza, proprio sotto l’ex ponte Morandi).

Sembrava tutto deciso dopo 10 anni e quattro processi, passando per un rinvio della Cassazione.

E la condanna alla ex sindaco e a Francesco Scidone, un assessore della sua fu giunta, più alcuni tecnici dirigenti del Comune genovese, Gianfranco Delponte, Pierpaolo Cha. Tra i quali uno tecnicamente definito “disaster man”. E l’ex capo della Protezione Civile, Sandro Gambelli. Era passata dalla pesantezza del carcere duro, a cui lei si era già preparata, con tanto di valigia pronta in casa, all’ipotesi dei servizi sociali. Che l’udienza del collegio del Tribunale di Sorveglianza doveva consacrare, appunto martedì 14 settembre.

Nessun dubbio, perfino qualche dichiarazione un po’ avventata della imputata in uscita dalla prima udienza di questa lunga coda processuale: ”Le sentenze si possono commentare, questa sentenza non ha spiegato bene come si sono svolti i fatti…..”

E poi alla udienza decisiva, quasi alla vigilia della tragedia il colpo di scena, anzi il doppio colpo di scena. Prima la presidente di questo collegio, Clara Guerello, si è astenuta dal giudizio, sostenendo di essere “in conflitto di interessi”. La sua famiglia ha subito un danno in un negozio della strada colpita dall’alluvione, via Fereggiano, proprio dallo straripamento del fiume.

La famiglia aveva anche cercato di costituirsi parte civile nel processo contro Vincenzi e gli altri imputati di omicidio colposo plurimo, disastro e falso. Ma la richiesta era stata respinta dal Tribunale e ora la giudice tutta di un pezzo, a un passo dalla fine della vicenda, si ricorda di essere in conflitto. E così invece della decisione arriva un altro rinvio al 22 settembre, con un collegio diverso. Ci si può chiedere: perché questo fatto, così importante, non era stato calcolato prima?

E poi il secondo colpo: perché i giudici di Sorveglianza e la relatrice, Chiara Semenza, hanno stigmatizzato l’assenza di pentimento e di risarcimento, “elementi fondamentali” per ottenere l’avviamento ai servizi sociali.

Così il calvario giudiziario, che sembrava finito dopo dieci anni, si è riaperto e nel modo più polemico possibile. Non solo con il giudice che si asteneva a sorpresa. Ma anche perché la Vincenzi, stremata da questa storia infinita ha risposto a quei rilievi: “Mi aspettavo una decisione più veloce e non mi aspettavo questi rilievi. Come posso pentirmi? Il dolore mi accompagna dal primo momento e ha cambiato la mia vita. Mi sono assunte le responsabilità da sindaco, ma non posso pentirmi di azioni personali che non ho mai compiuto. Non posso pentirmi di qualcosa che non ho fatto.”

Il suo avvocato, Stefano Savi, ha chiarito l’aspetto del risarcimento: “Non ha senso ristorare le famiglie delle vittime con 6 milioni di euro presi dalle tasche dei condannati. L’assicurazione ha finalmente pagato anche grazie alle nostre pressioni……”

Va ricordato che è grazie al sindaco Marco Bucci, espresso da una maggioranza ben diversa da quella cui apparteneva l’imputata Vincenzi, che si era sbloccata la questione dei risarcimenti, perché il precedente sindaco, Marco Doria, espresso da una maggioranza di sinistra e rivale vincente della Vincenzi nelle Primarie, aveva lasciato pendente la delicatissima questione.

“Pretendere un pentimento per qualcosa che non si è fatto”, ha insistito Marta Vincenzi. è come trovarsi davanti a un Tribunale dell’Inquisizione.”

E davanti all’obiezione di un atteggiamento poco empatico nei confronti delle vittime e dei parenti, tra i quali bambini e giovani mamme: “Non mi possono perseguire per questo, nessuno sa cosa provo dentro di me e tutto questo non può essere racchiuso in delle scuse.”

Parole come pietre, pesanti come quelle che sono appese al collo di questa donna, di 74 anni, sicuramente una delle più importanti nella storia politica del Dopoguerra genovese. Assessore comunale, presidente di Provincia, eurodeputata, prima sindaco donna di Genova. Falciata da quel disastro, che l’ha strappata non solo dalla vita pubblica ma da quella civile, isolandola umanamente.

Figlia di un operaio, studentessa modello al liceo classico “Cristoforo Colombo” negli anni Sessanta, professoressa di lettere, preside. Comunista dalle radici profonde, leader indiscussa del suo partito, anche nei suoi cambiamenti, fiera. Anche un po’ superba negli atteggiamenti, soprattutto verso le nuove generazioni cresciute poi con il Pd. La Vincenzi era un faro della politica genovese fino alla sua totale caduta.

Con nemici, ovviamente, come il suo alter ego a sinistra l’ex ministro, presidente della Regione, Claudio Burlando. Ma anche con un seguito largo, popolare e non solo, fatto di una certa intellighentia genovese.

Nel momento della tragedia è stata totalmente abbandonata dalla sua parte politica e non solo, tra imbarazzi, silenzi, falsi o autentici pudori. E’ come se fosse stata condannata prima civilmente e umanamente che giudiziariamente.

Nella quale l’accusa era di non aver chiuso le scuole davanti a un’allerta meteo nel momento in cui non esistevano ancora gradazioni di rischio meteorologico. Colori giallo, arancione, rosso delle allerte, catene di comando e assetti di Protezione Civile. Quali sono stati organizzati soprattutto dalle Regioni, dopo quel 4 novembre 2011. Quando il Fereggiano esplose come una bomba di acqua e fango nel centro est di Genova, annegando quelle mamme, quei bambini, perfino una edicolante che stava chiudendo il suo esercizio.

Da leader a imputata coinvolta anche in un difesa confusa. Dove qualcuno perse la testa, falsificando un verbale comunale che spostava l’ora dell’esondazione. Per dimostrare che era impossibile far di più, prevenire. La Vincenzi è sparita dalla scena non solo pubblica di Genova.

Non poteva neppure girare per strada. La insultavano, le sputavano addosso. La sola immagine sua che è rimasta è stata quella di una imputata che cammina per i corridoi del Palazzo di Giustizia. Tra un processo e l’altro, tra una condanna e l’altra.

Nel silenzio della politica soprattutto, quella dei suoi compagni, della sinistra dominante in quei decenni, in quegli anni in Italia. Nel silenzio della città, che fino a poco prima le si inchinava.

Non era mai accaduto prima e non è accaduto dopo che un sindaco fosse pesantemente condannato per le conseguenze di un grave evento naturale. Che pagasse con il doppio calvario penale e civile e perfino umano. Una settimana prima di quel fatidico 4 novembre l’alluvione aveva ucciso 5 volte nelle rinomate 5 Terre. Nessun processo, nessuna condanna …

La sola difesa alla Vincenzi, nel silenzio totale della esclusione quasi biblica da ogni consistenza civile e umana è stata quella di un illustre intellettuale, Vittorio Coletti. Docente di Italiano all’Università di Genova, membro dell’Accademia della Crusca, noto polemista sulle pagine genovesi di “Repubblica”. Coletti ha scritto anche un phamplet sul caso Vincenzi, intitolato. “4 novembre 2011: Analisi di un processo”.

“Vox clamans in deserto”. Come tutti i casi scomodi questo è stato lasciato cadere, non si è creato nessun dibattito, nessun confronto. In una città che almeno dal 1970 è stata bersagliata dalle alluvioni. E dove per questi eventi sono morte almeno 100 persone senza che scattasse alcun processo. Con l’eccezione di uno solo seguito a quello Vincenzi, a carico di un assessore regionale, Raffaella Paita. Anch’ essa allora del Pd. E a una dirigente regionale, Gabriella Minervini. Dopo qualche sofferenza, soprattutto per la dirigente, prosciolte in istruttoria per la morte di un ex portuale travolto da un’onda di piena del Bisagno.

E ora, per quella che i giornalisti un tempo chiamavano SuperMarta, è incominciata un’altra attesa, mentre lo spettro del carcere è riapparso. Mentre si prepara il decimo anniversario della sciagura.