Mario Mori e Antonio Subranni sono due anziani signori oramai segnati dai lunghi anni dedicati a seguire in veste a loro insolita le infinite udienze di un processo che sino a ieri li vedeva imputati di reati non ben comprensibili, ma connessi alla mafia. Sono due generali dei carabinieri che insieme al più giovane collega Giuseppe De Donno hanno speso la loro carriera a combattere la criminalità, la mafia in particolare, troppo spesso con indiscusso successo. Con tutto quello che ne consegue: vite blindate, famigliari minacciati, impossibilità a frequentare chicchessia. Unica soddisfazione: servire lo Stato con dedizione, mettendo in conto anche l’estremo sacrificio come è accaduto a molti. Peggio dell’estremo sacrificio per galantuomini come Mori, De Donno e Subranni c’è solo una cosa, essere accusati di mafia. Ed è l’incubo in cui i tre ufficiali si sono ritrovati.

A seguito di dichiarazioni dei criminali Giovanni Brusca, Salvatore Cancemi, Vito e Massimo Ciancimino nel lontano 1998 venne aperta un’indagine su quella che sarebbe passata alle cronache come trattativa Stato-mafia. Autori della trattativa, che nell’impianto accusatorio vedeva coinvolti boss da una parte e vertici dello Stato dall’altra, sarebbero stati un tenente colonnello e un capitano, gradi rivestiti da Mori e De Donno al tempo dei fatti incriminati. Di loro iniziativa. Chi è dell’ambiente sa che tali gradi in un sistema gerarchico funzionale non consentono grande autonomia e tanto meno adeguata autorevolezza per pretendere dalle massime cariche del Paese quanto pattuito con i mafiosi. Chi è dell’ambiente sa anche che ufficiali dal rigore etico di Mori, Subranni e De Donno mai sarebbero scesi a compromessi con criminali di tale fatta ma questo lo si è potuto appurare solo dopo 23 anni di indagini e processi. Non pochi soprattutto per chi, varcata la soglia degli ottant’anni, vede assottigliarsi sempre più i tempi di restituzione dell’onorabilità.

Diceva un capace generale dei carabinieri che di fronte a gravi reati spesso bastano due pagine di rapporto ben scritto da un bravo investigatore per inchiodare il colpevole. In questo caso pagine ne sono state scritte migliaia e più se ne scrivevano più aumentavano i dubbi. Dubbi che invece erano certezze per gran parte dei commentatori in possesso della verità assoluta contro i quali era impossibile azzardare qualsiasi ipotesi garantista a favore degli imputati. Mori, messa da parte la sua storia personale, costretto alla stessa attendibilità di Ciancimino. Maestri del pensiero unidirezionale non paghi del dolore inflitto ai famigliari con insulsi commenti sui loro quotidiani comunque non si rassegnano e pur di fronte all’oggettività di una sentenza si trasformano da feroci aguzzini a improvvisati giuristi che tra le pieghe di un’assoluzione intravedono spunti di qualche colpevolezza.

Fiumi di inchiostro e migliaia di articoli scritti in tutti questi anni al momento sembrano però dissolversi, la sentenza che annulla anni di presunte verità non piace e contrariamente a quanto da sempre solennemente affermato questa volta per molti può essere commentata e anche confutata. Al di là delle convinzioni e degli orgogli personali, speriamo che anche la stampa più ostinata si convinca di una cosa: lo Stato non si è mai piegato alla mafia e deve essere fiero dei propri rappresentanti che quotidianamente la combattono, cui vanno resi onori incondizionati. Sarebbe bello e anche degno di un Paese civile che addirittura arrivassero le scuse da parte di chi si è sistematicamente sbagliato. Un piccolo segnale ma forse l’incresciosa quarantunesima posizione nell’indice mondiale della libertà di stampa –registrata nel 2021 dall’Italia – potrebbe iniziare a invertire la tendenza.

F. FEDI