di ANTONIO SACCÀ

Il Male ha da sempre occupato la mente degli uomini in specie se credenti in un Dio unico e buono. Esistendo un Dio buono e un Dio malvagio non vi è questione, il Male è addossato al Dio malvagio in lotta con il Dio buono, e di solito vince il Dio buono. Ma quando Dio è unico o unico in Tre Persone come nel Cristianesimo, oltretutto un Dio creatore assoluto come non supporre che non sia Dio a creare il Male, il Maligno? Concepire un Angelo che da perfetto si fa ribelle è reputarlo un Angelo imperfetto, Dio dunque creerebbe l’imperfezione, in sostanza, il Male. Creare significa volere quel che viene creato, Dio pertanto vuole il Male. Ma se Dio vuole il Male non è un Dio buono. L’idea di un Dio anche malvagio, di un Dio bene-male, di un Dio totale spiegherebbe l’esistenza del male. Ma non è questa la “soluzione” che le religioni monoteiste propongono. Segnatamente il Cattolicesimo considera il Male una mancanza di Bene, o lo immette in un piano divino, la Provvidenza, nel quale il Male serve al Bene.

Con la Rivoluzione Francese l’uomo aveva stimato di poter procedere in virtù della Ragione, della libera volontà, ispirandosi, se mai, a un Dio razionale o alla Dea Ragione. La fede spariva, spariva la Chiesa, spariva la mediazione tra Dio e l’uomo incarnata dai sacerdoti. L’uomo cercava soluzioni al dolore, al male umanamente, mondanamente, senza rifarsi a Dio. E, specialmente, non si credeva peccatore, nullità, implorante sostegno dall’Alto. Ciascun uomo con le propria capacità poteva valere quanto riusciva a volere. Questo sembrò sovversivo. In specie per chi, nel rendere l’uomo indegno e malvagio, lo sollevava esclusivamente per intervento divino, il quale intervento consolava soprattutto gli sventurati, gli sconfitti. Se l’uomo non si disprezzava, se l’uomo tentava la felicità in Terra, Dio non aveva più compiti consolatori. Oltretutto l’uomo esigeva diritti non solo obbediva a doveri, nullavalente come era. In Manzoni l’uomo veniva restituito all’obbedienza ed alla sopportazione della sofferenza, della “peste”, volgendosi a Dio.

Di narrazioni della “peste” ne abbiamo, e tremende, ed in varie epoche, la peste in Atene, riportata da Tucidide, storica, la peste immaginata da Tito Lucrezio Caro a segno di una condizione umana alla quale gli Dei sono estranei, la peste di Londra, della quale fu cronista Daniel Defoe, e la peste di Alessandro Manzoni, una peste accaduta, e nel tempo che Manzoni concepisce per la vicenda che finge di aver trovato. Di tale peste abbiamo documentazioni, e Manzoni le utilizza a colme prese, rendendole tragiche di episodi nitidi, precisati, strazianti e disumani, l’uomo di fronte alla morte, il terrore, l’impotenza, la bestializzazione. Come avviene che Manzoni immetta nella sua opera questo accadimento? Di sicuro lo fa per amore del fatto accaduto a quell’epoca, così come scrive delle guerre. Ma vi è una ragione più essenziale. Manzoni è combattuto tra una visione del tutto tragica, shakespeariana, leopardiana, il trionfo delle passioni, vita e morte, il Nulla onnicomprensivo nel quale si intorcina la vicissitudine umana, e la ricerca della “salvezza”, propria della fede, del credente. È il problema del Male. Che Manzoni “risolve” in modo assai dubbio: reputando Dio, l’abbiamo detto, e ridetto, consolatore degli afflitti, offertore di speranza. Scoppia la peste, a migliaia periscono degenerati nei corpi e nell’animo, e Dio consola e dona speranza!

Che intende darci a capire Manzoni, che l’uomo meritava la peste, peccatore com’è, ed è grande generosità di Dio confortarci e aprirci speranza nell’aldilà? Che l’al di qua è un inferno ed è opportuno volgerci all’aldilà? Ma offrire una visione infelice della Terra e sulla Terra per dirizzare lo sguardo al Cielo può spingerci a concepire che Dio ci vuole infelici per affidarci alle Sue cure. Concezione che renderebbe Dio crudelissimo pur di sottometterci a Lui, giacché senza di Lui c’è soltanto la “peste” e nessun aiuto. Manzoni non resse la visione tragica della vita. Si annida nella fede. Per quel che di tragico manteneva nella sua mente rappresentò dolore, violenza, ma volle salvarsi, salvarci , e indicare salvezza, e penetrò nel luogo più comune della salvezza, la religione, ma poiché, dicevo, scorgeva dolore e morte, ne incolpò l’uomo, e pietoso dell’uomo rese pietoso Dio, Dio era pietoso di un uomo colpevole e infelice. Di certo, non tutti gli uomini possono accettare un Dio che ha bisogno della nostra infelicità per soccorrerci. E poi, ci soccorre? La “peste” sopraffà gli uomini, li macera, li riduce dementi, degenerati, disumani, in che reperiamo il soccorso di Dio? Soccorso sarebbe stato non consentire la peste.

Dio non deve intervenire nelle vicende umane lasciandoci liberi? Ma viene affermato che ci soccorre, che sta con gli afflitti, gli oppressi? Se ci consola dai mali ottimo sarebbe evitarceli, dato che interviene. Intervenire a sventura accaduta è, può sembrare, sconfiggere, far patire, lasciar patire l’uomo perché invochi il soccorso di Dio. Sarebbe tutt’altro che bontà. È il Dio assolutamente buono che intorbida la narrazione de I promessi sposi. Meglio sarebbe stato un Dio al modo dell’Antico Testamento, ebraico, buono e spietato, che decide anche la sofferenza perché Egli la vuole, ed il Suo volere non ha limitazioni. Manzoni alcunché del genere lo concepì (“il Dio che atterra e suscita, che affanna e che consola”) ma ne I promessi sposi non ebbe la tremenda deliberazione a esprimerla, si che dobbiamo accettare, dovremmo accettare, un Dio buono ed un uomo che soffre, e, incredibilmente, un Dio che conforta un uomo desolato, naufragato. Sarebbe tale la bontà di Dio? Più comprensibile un Dio onnipotente, non buono, soltanto onnipotente, onnivalente. Vi è oltretutto qualcosa di inaccettabile nel Dio consolatore degli afflitti, vi è la suggestione a non ribellarsi all’afflizione giacché verremo consolati. È lo stoicismo che penetra nel cristianesimo e ci fa conquistare la virtù, la salvezza, sopportando il dolore e le sventure. Nel cristianesimo questa concezione si umanizza, è Dio-Cristo, è il Dio cristiano a fare da compagnia al derelitto, purché chieda soccorso al Dio-Cristo e non sia rivoltoso.

Ne I promessi sposi, i malvagi sono perdenti. O si ravvedono. La dominazione di un malvagio è momentanea e pagata carissima o rimediata con la conversione. L’innominato e la Monaca di Monza si pentono, Don Rodrigo è devastato, il Griso ha un attimo di buona sorte ed è annientato. Certo, muoiono anche i buoni, gli spiriti eletti, ma fondamentale è che i malvagi si redimano e vengano puniti, è così che la Provvidenza si sostituisce all’uomo per fare giustizia, come a dire: lascia fare a Dio. Manzoni tentò di sottrarre all’uomo di farsi giustizia, di insorgere, di agire da sé per sé. Rivolta e rivoluzione venivano estirpate dalla volontà umana. Dio fa tutto, perfino il male, che può sembrare male, lo permette (vuole?) a fin di bene! Se i rivoluzionari contavano sul loro compiere senza Dio, ora Dio compie sopra gli uomini, li compie, li regge, dà loro un fine che gli uomini ricevono grati a Dio, dovrebbero esserlo, giacché Dio ha per meta il bene, sicuramente. Tutti si affidano a Dio, in Manzoni, e Dio guida tutti, i credenti perché lo chiedono, i non credenti perché Dio si impone. Dio fa trovare la via a Frate Martino: “Dio mi guidò” (Adelchi), la provvida ventura pone Ermengarda tra gli oppressi (Adelchi), anche Napoleone si inchina al “disonor del Golgota”, a Dio-Cristo. Cristo-Dio regna, vince, impera, governa, regola. E soprattutto consola gli sconfitti. Gli sforzi umani rivoluzionari di far da noi senza Dio sono velleitari, privi di senno, sconclusionati, fallimentari, per Manzoni. Senza Dio non vi è senso, ma una umanità disperata e a vuoto. Per Manzoni.

I PROMESSI SPOSI

Narra di Renzo e Lucia, giovani, innamorati, in forme animose da Renzo, in forme appassionate ma trattenute da Lucia, i quali vorrebbero da Promessi sposi diventare sposi, non fosse che un signorotto, siamo nel XVII secolo, in Lombardia, dominata dagli spagnoli, di nome Don Rodrigo, vorrebbe, per scommessa e capriccio, avere Lucia. Si che invia degli scherani, i bravi, a intimidire un timoroso parroco che dovrebbe cerimoniare, questo parroco non coraggioso, e intimidabile, è Don Abbondio, che obbedisce ai bravi. Cercano Renzo e Lucia di farsi unire con inganno, non riuscendo, Lucia, avvertita da Padre Cristoforo del pericolo, viene recata presso Monza, un convento di Monache. Governa il convento Gertrude, presa dalla realtà documentata, fu costei nella vita, Marianna de Leyva y Marino, costretta a monacarsi, come in uso allora, perché il patrimonio restasse al figlio maggiore, nelle famiglie aristocratiche. Per timore e per condiscendenza Marianna si rende monaca, ma perviene a spezzare tale condizione al grado di avere un amante e di uccidere una monaca che poteva far conoscere la relazione di Marianna. Nel romanzo, l’amante di Marianna-Gertrude ha nome Egidio. L’incaponito Don Rodrigo si rivolge a un signore locale, l’Innominato, gli viene richiesto aiuto nel rapire Lucia. Un servo dell’Innominato, Nibbio, e l’amante di Gertrude, Egidio, con l’aiuto di Gertrude si impossessano di Lucia.

Il Nibbio, sciagurato che fosse, è toccato dalla disperazione virginea di Lucia e ne dà notizia all’Innominato, il quale, pur depravatissimo, vive suoi tormenti, anche egli è preso dalla disperazione e purezza di Lucia, si che addirittura si ravvede, incontra il Cardinale Federigo Borromeo, che è in visita nella zona, si che Lucia è affidata a due coniugi. Intanto Renzo cerca Lucia, a Milano entra nei tumulti dovuti alla carestia, vocifera, rischia di mal condursi, e di farsi imprigionare, sono tumulti per sfamarsi. Siamo nel momento della guerra per la successione a Mantova, con la discesa dei Lanzichenecchi, mercenari tedeschi, i quali oltre il resto dei danni, recano la peste. La gente muore a migliaia, si sospettano untori che la propagano, da tale peste sono colpiti buoni, come il padre Cristoforo, coraggioso protettore di Renzo e Lucia, malvagi come Don Rodrigo, il suo accolito Grifo, che lo consegna ai monatti, raccoglitori dei morti, e tanti, tanti, con episodi memorabili (la morte della piccola Cecilia).

La peste finisce. Renzo e Lucia si ritrovano. Si uniscono in matrimonio. Come abbiamo insistentemente detto, Manzoni ritiene che tutto ciò che avviene è per disegno divino che punisce il malvagio e se pare colpisce il buono è per il bene. Un malvagio che trionfa e si gode la vita è, per Manzoni, inconcepibile, o punito o convertito. Come creatore di personaggi Manzoni non ha avuto pari nella nostra narrativa, e il suo linguaggio li ravviva di formulazioni inconsuete, fini, proprie. Ricostruisce dettagliatamente l’epoca (finge di aver trovato un manoscritto), ed è entrato nella cultura nazionale e popolare. Il tremolante Don Abbondio, la casta e amorosa Lucia, l’animoso Renzo, il concupiscente e vile Don Rodrigo, il segreto e tenebroso e rigenerato Innominato, il maestoso e umile Cardinal Federigo, la tortuosa e redenta Monaca di Monza, la buona e materna Agnese, l’impavido Frate Cristoforo, il viscido Grifo, il filosofoide Don Ferrante, l’onninvadente Donna Prassede, e tutto quanto il resto, è definito, in bassorilievo, se non statuario. È privo Manzoni del Personaggio grandioso del tipo Amleto, Faust, Don Giovanni, Don Chisciotte, ha creato molti personaggi non il Personaggio. Tuttavia sono personaggi definiti, che emergono dalle parole come viventi, in aspetti che li caratterizzano.

Quel che sta in vetta al pensiero del Manzoni, è manifestare una sua urgenza, un’ossessione: che questa Terra è luogo di scorpioni, iene, tigri e talvolta di un sant’uomo, ma santi e uomini bestia sono destinati alla morte e all’insignificanza, a meno che non ricorrano a Dio, il quale conforta e condanna e rende mediante la Provvidenza a buon fine i casi della vita, prediligendo gli sconfitti e irridendo ai conati di volontà e indipendenza degli uomini da Dio. Manzoni ha parole spregiative nei confronti di un uomo che ritenga di potersi difendere e tener vigore, considera “ilari”, da ridere, tali atteggiamenti. Questo sentire niente gli uomini e questo ricorrere a Dio e cogliere o sperare nell’intervento di Dio per sanarsi dal nulla e dalla disperazione sono continui, persistenti, insistenti in tutta l’opera di Manzoni. Ma appare non facilmente spiegabile come un Dio così presente e confortevole e benevole non tronchi di netto il Male che domina la Terra, giacché, se interviene, potrebbe farlo. Perché: o Dio interviene, ed allora non comprendiamo come mai non ci scampi dal Male; o Dio non interviene, allora è come non esistesse, o è crudele.

O il Male è un’illusione? Lo fosse sarebbe inutile l’intervento divino. È il problema, con riguardo al Manzoni: tanto Male sulla Terra e Dio così partecipe ai nostri eventi non elimina il Male invece di consolarci del Male accaduto! O siamo noi che ci consideriamo consolati, consolandoci da noi? La via di uscita di Manzoni, è, l’abbiamo accennato, che i mali fanno sorgere il Bene, la fiducia in Dio li raddolcisce e li rende utili per una vita migliore” (I promessi sposi), e, al solito, che l’uomo deve ringraziare Dio sempre, infimo essendo l’uomo, Sommo essendo Dio. Sono concezioni problematiche e possono non venir condivise. Oltretutto esigono la Fede. E ciò limita la loro significazione. Alessandro Manzoni nacque a Milano, nel 1785. La madre, Giulia Beccaria, fu donna spregiudicata, giovane rispetto al coniuge, Conte Pietro Manzoni, si separò da costui, sembra che Alessandro, già nato, non fosse di Pietro Manzoni ma di Alessandro Verri, uno dei fratelli Verri, intellettuali di rilievo e fautori della modernità. Del resto Giulia era figlia del famoso Cesare Beccaria, autore di un’opera contro la pena di morte e la tortura inneggiata dall’Europa illuminista. Alessandro sta nella casa paterna, e va in collegio dai padri somaschi e barnabiti. Alla morte del padre formale, si ricongiunge alla madre che si era da tempo unita a Carlo Imbonati, personalità di un certo valore sociale e culturale. Il rapporto di Alessandro con la madre diverrà intenso e resterà perenne. Sono a Parigi, Imbonati muore, Alessandro frequenta i salotti della Città. È un momento straordinario, nel pieno dell’epoca napoleonica, e nel passaggio tra il classicismo, composto, misurato, e il romanticismo, estremo, appassionato, spesso ribelle. Manzoni conosce e stringe ferma amicizia con Claude Fauriel, storico, cultore dello stoicismo. Non ha, Manzoni, ancora, un orientamento deciso, anche se pare volgersi al progressismo, così il poema giovanile “Urania”. Sposa Enrichetta Blondel, calvinista, svizzera.

Sarà stata la vicinanza della consorte, la convinzione che la vicenda umana sia un errare a fondo perduto, sarà stata la considerazione del male che sovrasta gli uomini, degli sconfitti ai vincitori vinti a loro volta dalla morte, e tutto ciò in una parapiglia insensato, in ogni caso Manzoni cerca un’uscita e la trova nella religione, cattolica con impronta giansenista (ebbe per consiglieri spirituali due sacerdoti giansenisti, Degola e Tosi), vale a dire: esiste un disegno divino, che salva e danna, la storia non è vicenda a caso, é, piuttosto, la peripezia del male; dell’uomo peccatore ed infimo che niente vale e può sperare da Dio la grazia; l’elemosina della salvezza e del conforto. Si tratti di individui o di popoli, Manzoni affermerà questa convinzione; dagli “Inni sacri” alle tragedie, Il Conte di Carmagnola, Adelchi, e infine nella sua opera fondamentale, I Promessi sposi. Scrisse anche testi saggistici, sulla lingua italiana, preferendo il toscano, sulla impossibilità di compiere il romanzo storico; e quindi la necessaria separazione di storia e invenzione, ma ciò dopo aver scritto un romanzo storico; sulla morale cattolica: Dopo la morte di Enrichetta sposò Teresa Borri. Accolse con favore l’Unità d’Italia. Venne nominato Senatore. Alla sua morte Giuseppe Verdi gli dedicò una tragica Messa da Requiem, più disperata che consolatrice. Alessandro Manzoni e i suoi “personaggi” sono tra le glorie più rivissute dalla nostra nazione.