di Claudio Madricardo

Le occupazioni delle terre da parte dei coloni sono in buona parte all’origine degli enormi incendi forestali verificatisi in questi anni in Bolivia. Risale al 2019, complici siccità e​ un decreto di Evo Morales​ che ampliava gli incendi autorizzati per recuperare aree di selva alla coltivazione, il più grande disastro naturale della storia boliviana, quando, tra luglio e ottobre, sono andati in fumo​ 5,4 milioni di ettari di foreste e savane boliviane. Molto di più dei 2 milioni bruciati simultaneamente nel lato brasiliano, dato più pubblicizzato e noto internazionalmente.

Quest’anno il fenomeno si è ripetuto con quasi 2 milioni di ettari bruciati, soprattutto in aree cedute dal governo a gruppi di coloni. Se lo compariamo con l’Italia, dove nel 2021 sono bruciati 150mila ettari di verde, considerando che la Bolivia è quasi 4 volte il nostro Paese, le proporzioni degli incendi risultano assai maggiori, e si capisce perché la Bolivia è da vari anni il paese con la deforestazione pro capite più alta al mondo.

Durante il governo di Evo Morales, il più longevo della storia bicentenaria del Paese, i diritti degli indios che abitano le pianure orientali amazzoniche della Bolivia, abitate e riconosciute da anni come territori dei popoli originari, sono stati progressivamente diluiti con quelli dei coloni quechua e aymara. E quelle terre sono state invase progressivamente dagli “interculturali”, l’eufemismo usato, a uso soprattutto esterno, per ribattezzare quelli che prima si definiva la federazione dei colonizzatori della Bolivia, grandi elettori del governo di Morales e dell’attuale governo di Luis Arce.

Conosciuto e celebrato nel mondo come primo presidente indigeno dello Stato plurinazionale della Bolivia, Morales, di origine aymara pur non essendo in grado di parlare alcuna lingua indigena, durante il suo lungo governo ha​ favorito principalmente i suoi elettori di origini andine, sacrificando i diritti degli indios amazzonici e chaqueñi.

È stato così che gli insediamenti dei coloni sono serviti a “privare dei territori comunitari i popoli originari”, “distruggere foreste”, “incendiare savane” e “spartire” le terre con gruppi di potere legati al governo che poi finiscono per venderle a terzi, spesso grandi imprese agroindustriali o dell’allevamento del bestiame.

In questo contesto si è collocata l’XI marcia indigena dei popoli dell’Amazzonia, Chaco e Chiquitania boliviani, partita il 24 agosto da Trinidad, la capitale del dipartimento amazzonico del Beni, e conclusasi ieri a Santa Cruz de la Sierra, centro economico della Bolivia, con una grande partecipazione di massa, dopo aver percorso più di 600 km.

Gli indios si sono mobilitati nuovamente in difesa dei loro territori, della loro identità e della loro cultura, per chiedere al governo di rispettare le loro terre, denunciando l’invasione dei loro spazi ancestrali da parte dei coloni e la schiavitù che sostengono di soffrire in modo permanente.

La nuova marcia indigena, a trentuno anni della prima memorabile marcia che sdoganò in Bolivia l’uso del termine indigeno, ha avuto ancora come leader il quasi settantenne Marcial Fabricano Noe, indio moxeño di lingua arawak, che continua a marciare per i diritti dei popoli delle terre dell’Amazzonia e Chaco boliviano, abitate da 33 dei 36 popoli indigeni riconosciuti dalla Costituzione boliviana.

Nata in “difesa” dei territori e delle risorse naturali, dell’identità culturale dei popoli delle pianure amazzoniche, ignorati e subalterni al potere rispetto alla maggioranza delle genti andine, ampiamente presenti e rappresentate nel governo di Luis Arce, ha riscosso anche l’appoggio di vari rappresentanti indigeni quechua e aymara.​

Il governo di Arce ha cercato in tutti i modi di dividere i manifestanti​ e farli desistere. Ha minacciato l’intervento delle forze dell’ordine e della magistratura, ampiamente soggetta ai voleri dell’esecutivo. Ha cercato di impedire che ricevesse appoggio, cercando di intimidire anche la presidente dell’Assemblea permanente dei Diritti Umani della Bolivia, l’anziana attivista Amparo Carvajal, minacciata di destituzione e denunce da parte dei parlamentari del partito di maggioranza.​ ​

La strategia dell’esecutivo ha incluso anche la mobilitazione di gruppi paralleli “governativi” di indigeni e le minaccia di intervento dei colonizzatori coltivatori di soia le cui terre, ad uso agroindustriale, in passato spazi degli indios sirionó e ayoreo, sono state attraversate dai manifestanti. E ha cercato di liquidare la marcia come una manifestazione dell’opposizione, che l’ha appoggiata.