di Gabriele Minotti

Matteo Salvini sa di aver perso clamorosamente l'ultima tornata elettorale. È pienamente consapevole del fatto che il partito da lui guidato, la Lega, è uscito davvero malconcio da quest'ultima avventura alle urne. Anche se cerca di dissimulare, è sotto gli occhi di tutti (per primi i suoi) che per il Carroccio – come per tutto il centrodestra, del resto – c'è davvero poco da stare allegri e da dormire sonni tranquilli: si tratta di numeri, non di opinioni. Nonostante questo, il segretario sembra non aver capito quali siano le vere ragioni di una così solenne bastonatura. Lunedì sera il Capitano si è asserragliato, assieme ai suoi "luogotenenti", nella fortezza di via Bellerio, a Milano, che nel frattempo cadeva in mano alle schiere avversarie, alla sinistra del sindaco Giuseppe Sala. Cresceva in Salvini e nei suoi un atroce sospetto: non solo quello di aver sbagliato candidato (a Milano come altrove), ma anche di aver dato un'immagine ben poco accattivante di se stessi.

È probabile che – per un attimo – nella mente del leader leghista sia almeno balenata questa domanda: che i toni radicali, le intemperanze da stadio, il "nazional-popolarismo", la contestazione e le crociate antisistema (tipo spostamento su posizioni filo-No vax e simili) abbiano stancato l'elettorato? Per alcuni il dubbio è un alleato, in quanto stimolo a rimettere in discussione se stessi e a consolidare oppure a rivedere le proprie posizioni. I dubbi, spesso, aiutano a migliorare, a crescere e a integrare le proprie idee e le proprie visioni. Non così per Salvini, evidentemente, che invece sembra aver decisamente respinto l'idea di aver commesso degli errori tattici, strategici e politico-comunicativi, come si evince dal fatto che abbia preferito addossare la colpa ad altre persone e scaricare su altri fattori la responsabilità di fallimenti che invece sono solo i suoi. Si dice che quella sera il Capitano stesse ribollendo di rabbia, e mentre continuavano ad arrivare le proiezioni e i primi risultati impietosi col centrodestra e col suo partito (non più primo della coalizione, superato da Fratelli d'Italia), continuasse a gridare alla "congiura" e a inveire contro i suoi ministri e, più in generale, contro l'ala moderata guidata da quello che percepisce ormai come il suo rivale numero uno: Giancarlo Giorgetti. Sembra, addirittura, che il segretario li abbia definiti dei "corpi estranei" e che li abbia accusati di essersi "affezionati alla poltrona".

Tuttavia, se la causa del tracollo elettorale della Lega fossero davvero i "moderati", non si spiegherebbe perché i pochi candidati sindaco della Lega arrivati al ballottaggio nelle città più importanti, sono tutti esponenti di quell'ala e fedelissimi di Giorgetti, come Paolo Damilano a Torino e Matteo Bianchi a Varese. E se vincessero, questo non farebbe che confermare la tesi contraria a quella avanzata da Salvini: vale a dire che il problema non sta nei moderati o nella dialettica interna al partito – che, come insegna la tradizione democristiana, liberale, socialista e finanche missina, non solo non indebolisce le forze politiche, ma le rende capaci di guadagnare il più ampio consenso, in quanto rappresentative di una pluralità di interessi e visioni – ma nel fatto che la Lega sia tornata al radicalismo e al ribellismo della fase "no euro": quando Salvini aveva appena preso in mano le redini; quando, pur di farsi spazio al Centro e al Sud, non aveva problemi a stipulare intese con Casapound; quando, pur di raccattare qualche voto, si distribuivano pagnotte di pane nelle periferie romane e milanesi.

È inutile girarci attorno: la maggior parte degli elettori di centrodestra sono dei moderati, è un elettorato d'ordine che non vuole grandi cambiamenti, non ha grandi pretese e si accontenta di essere lasciata libera di vivere e lavorare in pace. Ciononostante, sono molti a imputare la responsabilità della débâcle alle Amministrative, se non proprio a Giorgetti, almeno alla partecipazione al Governo di Mario Draghi. È stata una scelta avventata – sostengono costoro – della quale ora si pagano le conseguenze. Si sarebbe dovuto fare come Giorgia Meloni e starsene all'opposizione. In questo modo – dicono – abbiamo fatto la figura dei "doppiopettati", dei "difensori del sistema". Se è così, allora non si capisce come sia stato possibile che proprio i partiti che hanno aderito al Governo Draghi con più entusiasmo e lo sostengono con maggior vigore siano quelli che non solo non hanno accusato grandi perdite di consensi ma, in alcuni casi, li hanno aumentati.

Al netto dei Cinque Stelle – che sono sostanzialmente scomparsi per ragioni ben diverse – basterebbe guardare al Partito Democratico, piuttosto che all'incredibile successo di Carlo Calenda a Roma o della stessa Forza Italia, che sebbene debole ha comunque saputo battersi con dignità. In secondo luogo, chi dice che la svolta "draghiana" della Lega sia stato qualcosa di inviso all'elettorato? Draghi gode di una fiducia trasversale: è una figura rassicurante e fondamentalmente capace di accontentare tutti. La Lega non ha tradito la sua identità appoggiando l'attuale Esecutivo: anzi, non è mai stata così identitaria, perché sé è vero che il Carroccio nasce come movimento di protesta, è anche vero che, com'era chiaro in altri tempi, quella protesta doveva avere il suo logico e inevitabile sbocco nelle istituzioni e nella partecipazione ai governi, e non doveva esaurirsi nei comizi roventi in periferia.

In ogni caso, difficilmente Salvini giungerà a questo tipo di conclusioni. Più probabilmente sceglierà (commettendo l'ennesimo drammatico errore) di recuperare consensi attraverso le polemiche, l'ulteriore radicalizzazione dei toni e l'abbandono del Governo. I recenti avvenimenti – come la mancata partecipazione della Lega al Consiglio dei ministri sulla delega fiscale – farebbero presagire qualcosa di simile. Draghi è sempre più stizzito. Salvini si giustifica dicendo che la Lega si opporrà all'introduzione di nuove tasse. Che sia la classica palla salviniana da prendere al balzo per rovesciare il tavolo e andarsene all'improvviso, come fatto col Governo Conte? Se dovesse verificarsi una cosa simile, la Lega darebbe di se stessa l'immagine di un emulo tardivo e opportunista di Fratelli d'Italia. E si sa che alle fotocopie si preferisce sempre l'originale.

I salviniani di ferro starebbero facendo pressioni proprio in questo senso, prospettando al loro capo la possibilità di tornare al trentacinque per cento di qualche anno fa. C'è anche chi paventa la possibilità di un congresso della Lega per l'inizio del prossimo anno, in cui Salvini inviterà i suoi critici interni a sfidarlo. Sembrerebbe essere l'unico modo per mettere i moderati con le spalle al muro e ristabilire la sua autorità. Il segretario ne è convinto: senza di lui i "doppiopetti" non vanno da nessuna parte; sono destinati (Giorgetti in primis) a fare la fine di Angelino Alfano o di Gianfranco Fini. I voti li ha lui, dice il Capitano. Le elezioni, tuttavia, sembrerebbero dimostrare il contrario. E Alfano e Fini hanno sfidato un leader – Silvio Berlusconi – di gran lunga più abile e apprezzato dagli italiani per anni e anni: non solo per qualche mese e sull'onda emotiva.