“Ahi, Sudamerica!, “Oriundi, tango e futbol” è il nuovo libro del nostro editorialista Marco Ferrari (Laterza, 264 pagine, 18 Euro, acquistabile in ebook o tramite Amazon o Ibs) che racconta storie e leggende tra l’Italia e l’Argentina, tra Genova, Montevideo e Buenos Aires sempre legate dal sogno del calcio. Sono storie, esilaranti, malinconiche e struggenti, a cavallo tra le due sponde dell’oceano, con in mente i personaggi strampalati di Osvaldo Soriano e come colonna sonora le note intense di Astor Piazzolla. All’inizio del Novecento nascono squadre mitiche, dagli xeneizes del Boca Juniors ai millonarios del River Plate, dal Peñarol all’Audax Italiano di Santiago del Cile. La febbre del calcio si trasmette a tutto il continente e gli italiani sono sempre i portatori sani di questa epidemia, da San Paolo del Brasile a Caracas, Asunción e Montevideo. Scopriamo così le imprese e le avventure improbabili di calciatori geniali e destinati a segnare la storia: dal trio delle meraviglie del Torino fino al grandioso Guillermo António Stábile, El Filtrador. Così, tra i tangueros della Juventus, il Bologna uruguagio voluto da Mussolini, i romanisti in fuga dal regime fascista, i cinque “bidoni” uruguayani comprati dall’Inter, ci sorprenderemo e commuoveremo di fronte alle vicende di quelli che Borges chiamava i «figli dell’Europa rovesciata e depositata dall’altra parte dell’Atlantico». Storie malinconiche e surreali in cui pure Lionel Messi, La Pulga, ha qualcosa in comune con Giacomo Leopardi. Pubblichiamo parti del libro di Marco Ferrari.

Ghiggia e Schiaffino, lo

spendaccione e il tirchio

 

Di Marco Ferrari

 Se Ghiggia andava in Brasile o semplicemente prendeva una coincidenza aerea, cercava di farlo in incognito, ma all’aeroporto trovava sempre un poliziotto che urlava il suo nome e tutti lo guardavano con il disprezzo che si deve ad un assassino, al giustiziere di un intero popolo di oltre 200 milioni di anime. L’ultima volta che era andato in Brasile i giornali avevano titolato: «È tornato il fantasma del Maracanã». Una hostess che lesse il nome sul passaporto lo apostrofò: «Ancora lei?». Risentito, Ghiggia replicò: «Ma è stato tanto tempo fa!». La hostess lo fissò e rispose: «E come si fa a dimenticare!».Ghiggia ha scelto il giorno esatto per andarsene per sempre, il 16 luglio 2015, anniversario del Maracanazo, più o meno alla stessa ora in cui, sessantacinque anni prima, milioni di brasiliani piangevano. Stava parlando di calcio con suo figlio Arcadio – così chiamato in onore del suo capitano della Roma, Arcadio Venturi – quando ha sentito un dolore alla schiena, ha smesso di parlare e ha chiuso gli occhi stroncato da un attacco cardiaco. La sua ultima parola è stata «Fútbol».Abitava in una umile e linda casetta di Las Piedras, nel dipartimento di Canelones, venti minuti dal centro di Montevideo, abitazioni basse, treno a binario unico, galline nel patio e cani che si azzuffano nelle strade polverose. La terza moglie Beatriz, di 35 anni più giovane, era stata la sua prima e unica allieva da istruttore di scuola guida, uno dei tanti mestieri – da direttore di un supermercato a impiegato – che si era inventato per sopravvivere alla sua dissolutezza economica che lo aveva portato persino a vendere tutti i trofei. Beatriz teneva tutto pulito, centrini fatti all’uncinetto, poltrone comode, un bel televisore, un tavolo di legno massiccio, foto e gagliardetti alle pareti, lo stemma della Roma sopra il camino, tappeti e tende alle finestre. Lui, don Alcides, ancora arricciava le labbra come se tenesse i baffetti arzilli da sudamericano focoso e irruente. Sino alla fine Ghiggia è stato un testimone disposto a raccontare la sua storia che è la storia del fútbol. «Ancora adesso – mi ha detto Ghiggia qualche anno prima di morire – la gente mi riconosce per strada. E devo sempre ripetere quello che mi passò nella mente in quell’istante fatale: ebbene pensai che il pallone potesse infilarsi tra il portiere e il palo e così fu. Tirai di punta per dare più velocità alla palla in modo che Barbosa non avesse tempo per gettarsi a terra. Difatti la toccò, ma la violenza del tiro non gli consentì di trattenerla e si insaccò facendo cadere la bambola portafortuna che il numero uno teneva dentro la rete. Il Brasile era una squadra che segnava sei-sette gol a partita, ma noi la conoscevamo bene, sapevamo quelli che erano i punti deboli. Così io mi tenevo largo sulla destra intuendo che prima o poi sarei riuscito a scappare a Bigode e quando ci riuscii deviai verso il centro e tirai. La mia 

contentezza era enorme, stavo correndo verso l’allenatore Juan López Fontana e, se non mi avesse afferrato il mio compagno Rubén Morán, forse sarei salito direttamente in cielo. Un silenzio glaciale si sparse tra gli spalti. Fu il silenzio più impressionante che abbia mai ascoltato. Poi, alla fine, vedendo i brasiliani che mi mettevano le mani ai capelli, capii quello che avevo davvero combinato. Oggi posso dire che il Maracanã si è inchinato solo davanti a tre persone: il Papa, Frank Sinatra e io».«Venni in Italia – raccontava – sapendo di tornare nella terra dei miei avi. Sono stati dieci anni splendidi, nove alla Roma e uno al Milan. Quando ebbero bisogno di me e Schiaffino ci convocarono in nazionale. Ma le cose non andarono bene, per- demmo a Belfast e mancammo la qualificazione ai Mondiali del ’58. Peccato. Se fossimo andati in Svezia, il Brasile non avrebbe vinto quell’edizione perché i brasiliani mi temevano, mi vedevano e gli tremavano le gambe! Io e Schiaffino abbiamo giocato insieme anche a Roma e abbiamo fatto sfracelli vincendo la Coppa delle Fiere nel 1961. A noi i brasiliani ci          facevano un baffo!».Con la Celeste giocò solo 12 partite ma segnò quattro reti, una in ogni partita del Mondiale, record eguagliato solo da Jairzinho col Brasile ’70. Era arrivato nella capitale italiana nel 1953 a causa di una squalifica di otto mesi rimediata nel Peñarol per aver picchiato un guardalinee che gli aveva negato un gol nel derby con il Nacional. Mesi di sospensione che avrebbero potuto bloccare per sempre la sua folgorante carriera. Uno stallo di cui approfittò il direttore generale della Roma Vincenzo Biancone che lo convinse a venire in Italia per poter proseguire l’attività. Quando l’acquisto venne annunciato a una assemblea dei soci giallorossi al Teatro Sistina, il presidente romanista Renato Sacerdoti gridò: «Uno dei più grandi giocatori del mondo vestirà la maglia della Roma e si chiama Alcide come il nostro presidente del Consiglio!». Focosi rappresentanti della sinistra replicarono urlando: «Palmiro! Palmiro!». Nacque un tafferuglio bloccato a fatica ma poi l’applauso fu univoco. Il 3 giugno, quando sbarcò all’aeroporto, due ali di folla lo accompagnarono sino all’auto su cui salì. Il giorno dopo esordì in una amichevole contro il Charlton in uno stadio gremitissimo. Giocava con la fotografia della madre dentro i calzettoni, recitava poesie in spagnolo, si faceva lucidare le scarpette, divenne amico di Carletto Mazzone, che andava a prendere ogni giorno in macchina, e poi in campo scorrazzava libero sulla fascia, come un cavallo senza briglia, inventava dei dribbling che i ragazzi non riuscivano a copiare, crossava perfettamente sulla testa degli attaccanti. Segnando un gol, gridava: «Gregoria, Gregoria!» rievocando la madre. Con lui gli abbonamenti nei settori laterali aumentarono perché tutti volevano vedere da vicino il doppio passo, la finta e l’addio al difensore.Con magnanimità don Alcides ci regalò una confidenza: «Quel Mondiale era a punti, al Brasile ne bastava uno per vincerlo. Adesso posso confessare che Jules Rimet era in ascensore quando ho segnato il gol al 79° minuto e dunque quando sbucò nel campo per la premiazione non sapeva quello che era accaduto. Lui si trovò impreparato alla fine del match. Allora Obdulio Varela si avvicinò e gli disse: “Se vuole darmi la Coppa bene, altrimenti siamo campioni del mondo lo stesso”. Rimet lo guardò negli occhi, incredulo, e gli passò il prezioso trofeo dentro il contenitore, come se fosse un pacco».Nel 2009 il Brasile gli ha concesso di lasciare l’impronta nella Walk of Fame del Maracanã, ma ai Mondiali del 2014 i dirigenti di Rio de Janeiro non lo degnarono di un invito né gli regalarono un biglietto omaggio e lui guardò le partite in televisione dal vecchio divano consumato di Las Piedras. Chiedendogli il segreto del piccolo paese latino-americano che sta nel grande calcio, lui mi rispose: «L’Uruguay è un paese futbalero che sa rinnovarsi. Una volta si trovavano molti giocatori dribladores, oggi il risultato dipende molto dai goleador. A differenza dei miei tempi, adesso conta molto di più la preparazione tecnica e fisica, il modo in cui si studiano gli incontri».Ghiggia viveva di una pensione di circa 700 dollari che con molto ritardo lo Stato uruguayano gli aveva concesso dopo uno spaventoso incidente stradale contro un camion che gli era costato 37 giorni di coma. Sperava sempre che qualcuno si ricordasse di lui per qualche evento celebrativo. Se otteneva un trofeo, subito lo metteva all’asta. Da ultimo era riuscito a piazzare il Premio Golden Foot per 29 mila dollari.«Tenere in casa un oggetto di valore non ha proprio senso – diceva con ampi cenni di assenso della moglie –, soprattutto da queste parti poco sicure. Così vendo tutto e investo quello che riesco a racimolare. Con il Golden Foot ho comprato un terreno che lascerò a mia moglie e ai miei tre figli. Bisogna pur lasciare qualcosa a chi viene dopo di noi, no? Lei, ad esempio, non potrebbe darmi una mano a far pubblicare all’estero la mia autobiografia?» mi chiese don Alcides. Poi la mostrava e il titolo non poteva che essere quello che uno si immagina: Un gol per l’eternità. Era nato a La Blanqueada, barrio elegante di Montevideo, nel 1926 e aveva esordito nello sport giocando a pallacanestro nel Nacional, nonostante il fisico tozzo e le gambe arcuate. Poi finalmente scoprì il pallone e andò a giocare nel Sud América, nel Progreso e quindi nel Peñarol, squadra di cui i suoi genitori erano tifosi, come tutti i discendenti di italiani. Quando il Nacional cercò di portarlo nelle sue file fregandolo ai “pie- montesi”, sua madre Gregoria, che faceva la sarta, lo ammonì: «Se te ne vai da loro, non entri più in questa casa!».