Gente d'Italia

La piazza di sabato ha dimostrato  che l’Italia è ancora da ricostruire

di Alessandro De Angelis

La fotografia di un brusco ritorno al principio di realtà, al limite della “rottura” ha le sinistre sembianze della guerriglia urbana per le strade di Roma e il rumore dello “sfondamento” delle porte della Cgil. Il primo sindacato italiano, che nella storia del paese ha rappresentato non solo la difesa dei diritti dei lavoratori, ma della democrazia tout court. Un simbolo. Senza voler cedere alla retorica e al ricordo di Guido Rossa, è l’organizzazione sociale che ha coniugato diritti e legalità, battaglia sociale e ripudio della violenza e del terrorismo, perché è vero che i partiti, quelli veri, si sono fatti Stato, ma lo hanno fatto anche i sindacati, rappresentanti di un interesse di parte, nell’ambito di una visione dell’interesse generale del paese.

È un salto di qualità: un’orda di manifestanti, infiltrati dall’estrema destra, ma la cui entità va ben oltre Forza Nuova segnala, dopo la grande rimozione, l’esistenza di un pezzo di Italia che “non regge” e diventa terreno di incubazione della rivolta. A una settimana dal voto, la protesta, entrata in sonno nelle urne, si è rovesciata nelle strade. Mezzo paese, le aree del disagio piegate dalla crisi e dalla pandemia sono rimaste a casa, ma poi, pochi giorni dopo, viene messa a ferro e fuoco Roma. Certo, l’ordine pubblico. Perché c’è da chiedersi se, a fronte dell’allarme sull’estremismo lanciato dal Viminale, poi ci sia stata qualche sottovalutazione. Ma la questione è più di fondo. Diciamoci la verità: una parte del dibattito pubblico, che chiama in causa classi dirigenti e intellettuali, si è illusa del ritorno alla “normalità”, come se tutto fosse finito, in un’orgia di retorica sulla “ripartenza” che oscura il dato di fondo di questa crisi. E cioè che la pandemia non è l’inceppo di un motore da riaccendere, ma la devastazione di un paese da “ricostruire”, con fatica: economicamente, socialmente, moralmente.

Senza il rimbalzo economico, fisiologico dopo le chiusure e fortunatamente superiore alle aspettative, probabilmente una rottura democratica si sarebbe già consumata. Ma la società non è solo Pil, nel senso che l’entusiasmo sul “momento Italia”, la “ola” a ogni “più uno” degli indicatori non spiega il malessere. È già un miracolo che non sia tutto nero, la tentazione di vedere tutto rosa reca in sé il rischio dell’abbaglio. Ecco, come d’incanto il rumore delle bombe carta ridiventa più forte delle fanfare che hanno declamato la fine del populismo, solo perché un pezzo di paese ha voltato le spalle al sovranismo e ai Cinque stelle, forza politiche che lo avevano “incanalato” e che ora subiscono una disillusione più forte di quella che avevano cavalcato per prendere il potere.

È la manifestazione plastica di una rabbia che non si estingue nei pochi mesi in cui si è riconquistata la libertà di movimento e il virus, proprio grazie ai vaccini, infetta meno di prima. La sensazione di “sorpresa” del “sistema”, la cui tenuta si fonda sulla capacità di integrazione, è, a sua volta la dimostrazione plastica di un paese che fatica a trovare un punto di equilibrio e vive di continue sorprese. Che non ha i sensori. La sorpresa degli scontri, che segnalano un fuoco sui cui l’estrema destra getta vagonate di benzina. Ma anche la sorpresa che arriva dal Nord, dove gli imprenditori che hanno osannato il Green Pass Draghi adesso non reggono e a pochi giorni dall’obbligatorietà non sanno che fare con i lavoratori che non vogliono vaccinarsi. E si scopre pure che i governatori leghisti, i principali artefici dello strappo con Salvini sul Green pass proprio in nome degli imprenditori del Nord sostanzialmente lo rimettono in discussione e chiedono tamponi gratuiti davanti al rischio di licenziamenti di massa. E tralasciamo la scossa più grande più tutte nel “black Saturday” che suggerisce di dismettere l’espressione “dopo Covid” e ri-squaderna tutti i fondamentali della crisi: la risposta della Commissione europea, che di fronte alla richiesta di muri di mezza Europa, mica solo Visegrad, ne fa una questione di costi più che di politica.

C’è un fil rouge che tiene assieme il tutto ed è il conflitto tra uno spirito quasi da ordinaria amministrazione e la straordinarietà, si sarebbe detto una volta, della situazione concreta. Tra le percezioni della “soggettività” pubblica e l’oggettività degli eventi per come si svolgono. Il paese non vola, come suggerisce Fiumicino, luogo e metafora, dove ormai i voli cancellati sono più di quelli che decollano. E ora tocca al il governo, che pure ha avuto risultati straordinari proprio in termini di contrasto alla pandemia. Se c’è un salto di qualità, è ora chiamato a un salto di qualità, davanti a un numero (gli otto milioni di non vaccinati) e a una data (il 15 ottobre). Lasciare sospesa la questione del “che fare” crea un pericoloso limbo, dove si annidano paure, rabbia, frustrazione, focolai di tensione. Il messaggio “se non fai il vaccino rischi il posto di lavoro” che arriva dall’Italia reale apre la fase di una ulteriore riflessione, una volta che, arrivati in prossimità della dead line, gli strumenti della persuasione sono finiti, anche con l’egregio risultato di un altissimo numero di vaccinati: o la via danese, con tamponi pressoché gratuiti o l’assunzione di responsabilità nella direzione dell’obbligo vaccinale. Scelte politiche, non da ordinaria amministrazione.

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