MARCO FERRARI

Viaggiò molto in Asia e Sud America, Calogero Cascio (Sciacca 1927-Roma 2015), grande fotoreporter e scrittore, ma deve la fama alla sua terra natale, la Sicilia. Grazie a lui abbiamo reportages che ci danno l’idea esatta dell’isola negli anni Cinquanta tra tradizione ed emigrazione, isolamento e mafia, prima del boom industriale. Cascio torna nelle pagine di cronaca – si fa per dire - fino al 9 gennaio al Museo di Roma in Trastevere con la mostra ''Pictures stories, 1956-1971''. Si tratta della prima rassegna antologica dedicata all'artista siciliano. La curatrice Monica Maffioli ha selezionato più di cento stampe da fotografie d'epoca e stampe recenti dai negativi originali scegliendole dall'archivio di famiglia, affidato ai figli Natalia e Diego Cascio e alla Biblioteca Nazionale di Firenze, che raccoglie l'archivio della celebre rivista “Il Mondo” di Mario Pannunzio, dove il fotoreporter lavorò fino alla fine delle pubblicazioni. Così possiamo ritrovare uno dei grandi protagonisti della fotografia italiana del secondo Novecento che, dalla metà degli anni Cinquanta ai primi anni Settanta, raccontò, attraverso il suo sguardo fotografico, situazioni e momenti tra i più significativi dell’epoca, un racconto visivo di quasi vent’anni di storia fatta di uomini, luoghi ed eventi. Stabilitosi a Roma nel 1949, dopo gli studi universitari e una breve carriera di medico nelle borgate romane, Cascio sceglie la professione di fotoreporter ed entra in contatto con il mondo dell’editoria che aveva visto la nascita, nel dopoguerra, di importanti periodici illustrati come “Il Mondo”, diretto da Mario Pannunzio dal 1949 al 1966, e “L’Espresso”, fondato nel 1955 da Arrigo Benedetti ed Eugenio Scalfari. Proprio con “Il Mondo” stabilisce un rapporto privilegiato, un continuo e vivace scambio di opinioni con il suo direttore che, a suo parere, tende a pubblicare “foto belle, ma poco vigorose”. Allora ecco il suo modo di fare fotogiornalismo su “Il Mondo” tra il 1956 e il 1966 quando, con i colleghi Caio Garrubba, Antonio e Nicola Sansone, condivise l’ideale del reportage giornalistico come azione “politica”. Difatti, assieme a loro, nel 1963 avviò l’agenzia “RealPhoto”, contribuendo con Ermanno Rea, Plinio De Martiis, Franco Pinna alla “scuola romana” del fotogiornalismo. Dopo aver ricevuto encomi internazionali per il suo reportage nella città indiana di Chandigarh, progettata ex novo un decennio prima da Le Corbusier, Calogero Cascio ripercorre le vie di casa con una forte indagine sociale nelle campagne della Sicilia. Gira nei paesi dell’agrigentino e nella metropoli palermitana quale testimone delle condizioni di lavoro, del sottosviluppo economico e sociale della regione, alimentato dalla cultura della mafia e dalla paura del cambiamento. Sono immagini di fotografia documentaria, ma anche “umanista”, che negli anni Cinquanta porta la passione militante alla ricerca delle vere radici meridionali, come fecero del resto in altri settori Ernesto De Martino o Primo Levi. Documentò perfettamente la “cultura mafiosa” anche attraverso l’analisi degli sguardi e degli atteggiamenti, come nel funerale del padrino o i due uomini con la lupara su un carretto. Lo stesso metodo antropologico Cascio lo adotta nelle nascenti aree periferiche di Roma e nelle molte altre realtà italiane che vivono il boom economico con immense trasformazioni. Dall’emigrazione all’estero si passa quindi all’emigrazione interna, dal sud verso il nord, dalle campagne meridionali al triangolo industriale, un racconto in bianco e nero su un periodo importante della storia italiana, sui costumi dell’epoca, l’inizio della televisione, i viaggi sulla Fiat 600 per andare al mare, le sezioni del Pci che diffondono “l’Unità”, le manifestazioni per l’emancipazione femminile. “Fotografie che sono il frutto di un impatto violento e talvolta disperato tra un uomo e il suo tempo” affermava nel 1973. Ma il suo lavoro lo conduce in molti Paesi del medio e dell’estremo Oriente, quali Israele, Egitto, Vietnam, India, Nepal, Laos, Thailandia e soprattutto del Sudamerica. Visita e lavora in Brasile, Perù, Colombia, Venezuela riportandone delle narrazioni visive, delle “storie per immagini” di impronta antropologica, sociologica e politica, caratterizzate da uno sguardo capace di cogliere in ogni contesto il valore universale dell’uomo. Il suo occhio ironico ci restituisce l’insieme delle contraddizioni del continente latino-americano, una sorta di denuncia della condizione umana, facendo entrare Cascio tra i maestri della fotografia del dopoguerra. Negli anni Settanta Cascio abbandonò il giornalismo e passò l’editoria. “'Life sta finendo, Look è finito, Paris Match è in crisi, i giornali sono senza una lira - spiegò -. Per questo anch'io viaggio meno ma senza rimpianti perché, in fondo, le cose grosse della mia vita le ho viste”.