​ di​ Sergio Menicucci

 

“Il diritto dei cittadini ad essere informati è sotto attacco”. Inizia così il documento della​ Federazione nazionale della stampa italiana, pubblicato a pagamento su molte pagine di quotidiani. “I giornalisti – prosegue il documento – vengono quotidianamente intimiditi, minacciati, picchiati per via del loro lavoro. Sono nel mirino di​ organizzazioni criminali e neofasciste”.​ Aggiungere l’aggettivo “neofascista”​ è ormai di moda da parte di qualsiasi movimento o associazione di sinistra, per acquistare visibilità e rafforzare la loro legittimità, di cui non ce ne sarebbe bisogno derivante direttamente dalla​ Costituzione.​

 

Alla manifestazione di​ Piazza San Giovanni(luogo sacro della​ triplice sindacale dagli anni Settanta) i cartelli avevano un solo slogan:​ “Basta ai fascismi”. Quando si parla di diritto ad essere informati la condanna andrebbe allargata ai​ violenti di ogni colore, alla mafia,​ ai gruppi che approfittano delle guerre per far fuori i media che raccontano la dura realtà delle stragi e dei genocidi, e per non perdere la memoria agli esponenti delle​ Brigate rosse.

 

Negli ultimi dieci anni sono stati uccisi 880 giornalisti ma c’è stato un periodo, quello degli anni di piombo,​ tra iSettanta e gli Ottanta​ in cui uno dei bersagli principali per disarticolare il sistema politico con l’attacco al​ cuore dello Stato​ erano i giornalisti. Condannare tutte le violenze, quindi, e tutte le articolazioni che attentano alla democrazia e alle libertà costituzionali. Le Br non erano “fantomatiche organizzazioni extraparlamentari” ma gruppi militanti ispirati dal​ marxismo-leninismo​ per sovvertire lo Stato democratico.

 

Il giornalista​ Sergio Zavoli​ nell’inchiesta per la Rai sulla​ Notte della Repubblica​ ha sostenuto che dal 1974 (anno dei primi omicidi rivendicati) al 1988 le Br hanno rivendicato 86 omicidi, a cui aggiungere i ferimenti, i sequestri di persona, le rapine per finanziare l’organizzazione.​

 

L’elenco dei giornalisti vittime delle Br è lungo.​ Carlo Casalegno, vicedirettore della​ Stampa​ di Torino, colpito da un colpo di rivoltella morì dopo 13 giorni di agonia. Furono gambizzati​ Indro Montanelli​ allora direttore del​ Giornale nuovo,​ Vittorio Bruno​ direttore del​ Secolo XIX,​ Emilio Rossi​ direttore del​ Tg1​ della​ Rai,​ Antonio Garzotto​ del​ Gazzettino​ di​ Venezia,​ Franco Piccinelli​ della Rai di Torino,​ Nino Ferrero​ dell’Unità,​ Walter Tobagi​ nel maggio 1980 per opera della Brigata XXVIII marzo. Lungo è anche l’elenco dei giornalisti uccisi dalla mafia e quelli morti in varie guerre alla ricerca della verità da raccontare ai lettori.

 

Questa è la premessa che è peggiorata negli anni. Oggi la Fnsi ritiene che ci sia “una crisi senza precedenti, che mette in ginocchio il settore dell’editoria. L’occupazione è sempre più precaria. Migliaia di giornalisti sono costretti a lavorare senza tutele e con retribuzioni indegne di un paese civile”. La Fnsi ritiene ancora che “governo e Parlamento dimenticano​ l’articolo 21​ della Costituzione. Non vogliono norme per l’equo compenso e per contrastare il precariato”.​

 

Nel documento pubblicato a pagamento la Fnsi aggiunge “lasciar affondare l’Istituto di previdenza dei giornalisti significa dare il via allo smantellamento progressivo dell’autonomia e del pluralismo dell’informazione, pilastro di ogni democrazia”. Il messaggio finale della Fnsi è che governo e Parlamento non possono lasciar morire l’informazione. I vertici dei giornalisti lo hanno ribadito anche alcune settimane fa con la riunione straordinaria all’aperto a​ Piazza Montecitorio.