di Mariuano Giustino

Il presidente turco si dice pronto ad espellere dieci ambasciatori di paesi occidentali quali Stati Uniti, Canada, Germania, Francia, Olanda, Svezia, Finlandia, Danimarca, Norvegia e Nuova Zelanda. Ha preso di mira i capi delle missioni diplomatiche ad Ankara di questi dieci paesi, definendoli “persone non grate”, perché avevano sottoscritto, il 18 ottobre scorso, un appello per l’immediata scarcerazione del filantropo e attivista per i diritti umani Osman Kavala, rinchiuso in attesa di giudizio da oltre quattro anni, 1.476 giorni, nel carcere di massima sicurezza di Silivri, nonostante le sentenze perentorie della Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) che in due occasioni, nel 2019 e nel 2020, aveva stabilito che le prove dell’accusa contro Kavala erano prive di ogni fondamento e che quindi “il suo arresto rappresentava un abuso di potere dettato da motivazioni meramente politiche”.

Quello del presidente turco, del pomeriggio di sabato 23 ottobre, è l’annuncio della prima espulsione di massa di ambasciatori della storia repubblicana turca. Negli ultimi cinquant’anni la Turchia aveva dichiarato “persona non grata” solo tre diplomatici. L’ultimo ambasciatore ad essere stato espulso dal paese è stato l’iraniano Manouchehr Mottaki, nel 1989. Gli altri due precedenti si sono registrati nel 1986, quando furono espulsi l’ambasciatore libico, Abdulmalik, e il sottosegretario dell’ambasciata siriana Baladi.

Dichiarare un ambasciatore persona non grata è una misura estrema che viene posta in essere solo per motivi molto gravi. La sua possibile conseguenza, non esclusa dalla convenzione di Vienna, è la rottura delle relazioni diplomatiche con i dieci paesi. “Ho dato le istruzioni necessarie al nostro ministro degli Esteri. Gli ho detto di dichiarare i dieci ambasciatori persone non grate il prima possibile”, ha detto il leader turco davanti a una platea di suoi sostenitori e di amministratori del suo partito durante la Cerimonia di apertura del “giardino della nazione” nella città di Eskişehir. “Vanno a letto, poi si alzano e chiedono a noi di liberare Kavala. Per Kavala che rappresenta la filiale di Soros in Turchia si muovono 10 ambasciatori. Che impudenza!”, ha aggiunto Erdoğan.

Ma le parole più gravi il presidente turco le aveva pronunciate il giorno precedente quando aveva definito Kavala “residuo di Soros”.“Coloro che difendono questo residuo di Soros stanno cercando di screditarci, non possiamo permetterci di ospitarli nel nostro Paese. Ci chiedono di liberare banditi e assassini. Ma come si permettono di interferire nell’attività della nostra magistratura? Questa è la Turchia, non è uno stato tribale, è la gloriosa Turchia! Presto lo capiranno e se non lo capiranno andranno via”, ha detto Erdoğan. Su queste espressioni del leader turco è bene soffermarsi perché riguardano non solo Kavala, ma anche l’Occidente ed evidenziano che si sta consumando, da qualche anno, una spaccatura nel bacino del nazionalismo turco.

Ma andiamo per ordine, per quanto riguarda Kavala queste parole rischiano di pesare molto nel procedimento in corso contro di lui, imputato in attesa di giudizio, perché rappresentano un ennesimo messaggio per i giudici che lo stanno processando e rischiano di diffondere la percezione della sua colpevolezza influenzando il giudizio della magistratura. In una sua dichiarazione scritta, trasmessa alla stampa attraverso i suoi legali, in risposta alle gravissime parole del presidente che lo aveva additato come un “bandito” e un “assassino”, Kavala ha risposto dicendo che non ha più senso per lui partecipare alle udienze e difendersi, dal momento che non è possibile essere sottoposto a un equo processo e che non intende legittimare questa situazione di illegalità che lede la dignità e l’imparzialità della magistratura. Una dura risposta alle dichiarazioni di Erdoğan è arrivata anche dalla Open Society Foundations di cui è membro Kavala, tornata ad esortare il governo turco a liberare il filantropo in quanto innocente.

Il caso giudiziario di Osman Kavala dischiude uno scenario degno della penna di Kafka. Sembra che nella visione erdoğaniana della giustizia vi sia il simulacro di una assoluzione che è solo apparente. “L’assoluzione apparente”, descritta da Kafka nel suo romanzo “Il Processo”, è quella particolare sentenza che in ogni momento può essere revocata da un altro giudice o da un’altra Corte: un vero incubo! Un imputato pur essendo stato assolto, in realtà vive un’angoscia permanente. È quello che è accaduto a Kavala. “L’ordine giudiziario assolve, l’ordine politico condanna”. È in questa sintetica espressione coniata dai suoi avvocati difensori che è racchiusa la terribile vicenda giudiziaria del filantropo turco.

Kavala viene arrestato all’aeroporto Atatürk di Istanbul il 18 ottobre 2017, di ritorno da Gaziantep, dove aveva partecipato ad una conferenza sui diritti umani del Goethe Institute. Alle ore 15 di martedì, 18 febbraio 2020, la 30ª Corte Penale di Istanbul lo assolveva dall’accusa di sovversione dell’ordine costituzionale per aver sostenuto le proteste antigovernative del movimento di Gezi nel 2013, ritenuta una organizzazione sovversiva. Fu emesso un ordine di scarcerazione, ma alle ore 21 circa, dopo appena sei ore, la Procura della Repubblica spiccava un nuovo mandato di arresto con l’accusa per lui di avere avuto un ruolo di primo piano nel tentato golpe del 15 luglio 2016. L’urlo di gioia e il lungo applauso che avevano salutato la sentenza di assoluzione si erano poco dopo tramutati in un sussulto di grave sgomento per la nuova pesantissima accusa che da persona appena assolta lo aveva fatto precipitare di nuovo nella condizione di detenuto in attesa di giudizio con una richiesta di condanna all’ergastolo aggravato.

Il 20 marzo 2020 il filantropo turco viene prosciolto anche da questa nuova accusa, ma non viene liberato perché per lui ne è pronta subito un’altra, quella per “spionaggio politico e militare”, ai sensi dell’articolo 328 del codice penale turco. Il 10 dicembre 2019, la Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU), dopo aver valutato il ricorso di scarcerazione presentato dai legali di Kavala, aveva concluso che il filantropo era stato arrestato per “motivi politici” e “per mettere a tacere i difensori dei diritti umani” e ne chiese la “liberazione immediata”, ma la Corte di Istanbul, analogamente a quanto è avvenuto in altri casi, come in quello del leader curdo del Partito democratico dei popoli (HDP), Selahattin Demirtaş, non ha tenuto conto della sentenza perentoria della Corte di Strasburgo. Il 4 giugno 2020, il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa aveva invitato la Turchia ad eseguire le sentenze e a liberare immediatamente Kavala come richiesto dalla sentenza definitiva CEDU. Il 10 giugno 2021, sempre il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ha di nuovo rilevato gli abusi del sistema di giustizia penale della Turchia nei confronti del filantropo ed ha esortato la magistratura turca a garantirne l’immediato rilascio. In caso di mancata liberazione del ricorrente, il Comitato dei Ministri si è dichiarato pronto a garantire l’esecuzione della sentenza con tutti i mezzi a disposizione dell’Organizzazione sovranazionale, compresi, se necessario, i procedimenti di infrazione ai sensi dell’articolo 46 § 4 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) a cui la Turchia ha aderito come membro del Consiglio d’Europa.

Kavala non ha mai visto il volto del suo Pubblico ministero che non lo ha mai interrogato e continua a ripetere dalla sua cella della cosiddetta prigione dei giornalisti di Silivri che “gli basterà vedere il volto della giustizia”. Il suo caso kafkiano ora è finito in un “torba dava”, cioè in un “processo calderone” perché contenitore di diverse inchieste. Quella del torba dava è una tecnica che serve all’accusa quando un imputato viene assolto e per tenerlo ancora in galera il suo caso si unifica con altre inchieste correlate e si apre un nuovo processo in un meccanismo infernale per cui vengono presentate in unico calderone le accuse di “spionaggio politico e militare”, quella di “sovversione contro i poteri dello stato”, quella di appartenenza al gruppo di tifosi “Çarsı” che avevano partecipano alle proteste di Gezi e quella di appartenenza al “movimento Gezi”, del 2013. Il processo Gezi è definito come il processo alla società civile turca, alla nonviolenza, al movimento che aveva dato vita nella primavera del 2013 a proteste pacifiche antigovernative contro l’autoritarismo di Erdoğan e che era stato criminalizzato dallo stesso presidente perché ritenuto sovversivo e manovrato da potenze straniere nemiche della Turchia e dagli Stati Uniti.

Kavala è nato da una famiglia di ricchi aristocratici immigrati dai Balcani e ha utilizzato tutta la sua ricchezza materiale e spirituale affinché la Turchia diventasse un paese più democratico e ha fondato l’istituto Anadolu Kültür, punto di riferimento prezioso per comprendere la società civile turca, le minoranze e la loro condizione. Ha la colpa di essersi ribellato sin da subito alle istituzioni fortemente repressive del paese, ma tuttavia è rimasto all’interno di esse gestendo una serie di imprese e donando i suoi proventi a degne cause. È un ardente sostenitore della riconciliazione turco-armena e la sua filantropia ha nutrito una vasta gamma di progetti che vanno dai diritti dei curdi, degli aleviti e dei cristiani, alla difesa dell’ecologia e dell’ambiente. Molti studenti, intellettuali e artisti poveri hanno potuto contare su di lui.

Ma perché questo accanimento contro una personalità così influente e stimata nel mondo accademico e nella società civile d’Europa?

Erdoğan aveva direttamente accusato Osman Kavala di essere dietro una trama eversiva a sostegno dei “sovversivi di Gezi” mirante a rovesciare il suo governo. Il teorema di Erdoğan è che le manifestazioni di Gezi non erano altro che una operazione criminale per sovvertire l’ordine istituzionale e rovesciare il suo governo e che dunque bisognava punire coloro che le avevano orchestrate e finanziate. L’assoluzione avrebbe reso questo teorema infondato e indirettamente si sarebbero legittimate quelle proteste antigovernative spontanee, partite dal basso, sganciate dai partiti e da qualsiasi ideologia e a cui presero parte larghi strati, trasversali, della popolazione che dicevano “no” all’autoritarismo di Erdoğan. “L’identità del Soros della Turchia è stata scoperta”, aveva esclamato il presidente all’indomani dell’arresto del filantropo. Lo accusava di essere un uomo d’affari che cercava di influenzare la politica turca e di essere dietro una trama eversiva mirante a rovesciare il suo governo. Fu così che i quotidiani filogovernativi lo etichettarono come “Kızıl Soros”, il Soros Rosso, e lo accusarono di tutto, di essere dietro ad ogni vicenda oscura accaduta in Turchia negli ultimi decenni. Anche nel giorno della prima assoluzione del febbraio 2020, Erdoğan usò una espressione ben precisa, dicendo: “Con una manovra hanno cercato di liberarlo”. Un atto di accusa questo contro gli stessi giudici che avevano giudicato Kavala, accusati di essere al servizio di Soros che secondo lui “era dietro le quinte come regista occulto di una trama eversiva, come in un golpe”. Ha fatto intendere dunque che non avrebbe accettato mai alcuna decisione di assoluzione per l’attivista dei diritti umani.

Si può dire che Kavala sia diventato un capro espiatorio additato come un esempio negativo e che la sua detenzione serva da monito e da intimidazione per chiunque voglia opporsi a Erdoğan e al suo regime. Il presidente turco sembra ora un leader allo sbando, dopo essere stato abbandonato da esponenti di rilievo e fondatori del suo AK Parti sembra non avere più una visione e alcuna strategia e l’agenda politica è imposta dal suo prezioso alleato dell’estrema destra, Devlet Bahçeli, del Partito del movimento nazionalista (MHP). E appare impotente davanti al tracollo dell’economia del suo paese che fino a pochi anni fa rappresentava il fiore all’occhiello della sua politica da quando è salito al potere.

La pesante sconfitta del 2019 nei grandi centri urbani del paese, con la perdita di Istanbul, cuore economico della Turchia, gli sviluppi negativi in politica estera, in particolare in Siria, stanno costringendo Erdoğan a cercare in tutti i modi una via di uscita per tirar fuori il paese dal pantano economico in cui si è cacciato e dal debilitante isolamento politico a livello internazionale, in particolare in Occidente. Ora è preso da una faida in corso all’interno del suo partito tra le varie correnti che lottano per il potere scontrandosi tra due visioni opposte del nazionalismo turco. Si sarebbe registrata all’interno del vasto campo nazionalista una spaccatura tra filoccidentali da una parte ed eurasisti anti Nato e anti Europa (filorussi e filocinesi) dall’altra, con la corrente di Doğu Perinçek, l’ideologo dell’eurasismo, leader del Vatan Partisi (Il Partito della Patria) anti Nato e antioccidentale, vicino al Partito comunista cinese e con gli ex ufficiali della Marina. Vi sarebbero dunque forti spinte all’interno dell’area di governo verso un definitivo allontanamento dall’Occidente e le reazioni che si registrano in queste ore in Turchia, anche sulla vicenda Kavala e sulla minaccia di espulsione degli ambasciatori di paesi occidentali, sembrano disegnare uno scenario politico in cui si scontrano due campi: il blocco nazionalista che vuole separarsi dall’Occidente e dalla NATO prendendo a modello la Cina o la Corea del Nord e quello che potremmo definire “democratico e filoccidentale” che ritiene che la Turchia debba guardare soprattutto all’Occidente e rimanere ancorata all’Alleanza Atlantica.

E forse non è un caso che i dieci ambasciatori siano tutti di paesi membri dell’OSCE: sette di essi sono alleati NATO; sei sono membri dell’UE; quattro paesi appartengono al G-7; due hanno poteri di veto presso il Consiglio di sicurezza dell’ONU; cinque di essi sono partner chiave e uno è l’alleato di difesa più prezioso per la Turchia. La crisi degli ambasciatori sarà chiarita con la riunione di gabinetto di lunedì. Sembra che nessuno nei palazzi di Ankara abbia appreso con favore queste dichiarazioni minacciose di Erdoğan: tutti sono sotto shock. A questo punto ci si chiede perché il presidente abbia assunto una posizione così aggressiva contro paesi alleati. Due sono le ipotesi: o Erdoğan ha fatto queste dichiarazioni senza una adeguata riflessione pensando di discuterle successivamente nella riunione di gabinetto di lunedì, oppure rappresentano il primo passo verso un processo politico ben ponderato in vista delle elezioni del 2023 che potrebbero essere anticipate. Il leader turco, in gravi difficoltà interne, forse pensa di crearsi nemici esterni per accendere il fuoco del nazionalismo e raccogliere la popolazione attorno alla sua persona presentata come salvatore della Patria, minacciata dalle potenze occidentali come nel 1915-16.