di James Hansen 

Secondo il Pew Research Center, il 91% degli americani adulti giudica “molto importante” la parità tra i sessi. Negli Usa la gender equality è un ideale politicamente intoccabile. Come la mettiamo allora con il servizio militare obbligatorio?

Nei fatti, la “naia” americana ha cessato di esistere dopo la fine della Guerra nel Vietnam, nel 1973, ma è sopravvissuto l’obbligo per i maschi di registrarsi comunque—entro trenta giorni dal 18° compleanno—per l’eventuale chiamata alle armi nel caso dovesse rendersi necessario ripristinare il servizio di leva. I giovani che mancano di farlo commettono—in teoria—un reato, ma soprattutto perdono alcuni diritti: l’accesso alle sovvenzioni universitarie statali, la possibilità di trovare un impiego presso il governo federale e così via.

È un obbligo che non riguarda le femmine. La “disparità” è evidente e imbarazzante. Si è cercato soprattutto di non parlarne, ma il tema spunta fuori di tanto in tanto. Questo è uno di quei momenti: è infatti all’esame del Congresso Usa una proposta di legge che renderebbe anche le donne potenzialmente soggette al servizio di leva, fosse mai necessario riportarlo in vita.

Non sorprenderà il fatto che le donne non ne siano universalmente entusiaste. Al tempo stesso, o si è pari, o non lo si è... C’è poi l’inevitabile contrasto politico: il partito Democratico è favorevole—ma preferisce non parlarne. I Repubblicani sono contrari, vogliono invece “proteggere le nostre donne americane dalle barbarie della guerra”. È una presa di posizione paternalista che fa inferocire le femministe—ora perlopiù avverse a ogni ipotesi che potrebbe estendere la leva al gentil sesso, anche se molte di loro si erano battute per anni a favore del diritto delle donne militari (volontarie) a partecipare attivamente ai combattimenti e non solo per fare le infermiere...

È una situazione che genera arrampicate sugli specchi: Quella preferita parrebbe essere: “Noi donne siamo per la pace, non come quei guerrafondai degli uomini. Ci riguarda poco. Next question please...” Le ricerche effettivamente confermano la maggiore disponibilità dei maschi all’intervento militare come strumento di politica estera—anche se lo scarto non è sempre grande. Dipende dalla guerra: nel caso di quella del Vietnam, raggiunse il 15% (60% i maschi / 45% le femmine). Invece, per quella in Iraq che portò all'abbattimento di Saddam Hussein, la differenza nel livello di approvazione femminile rispetto a quello maschile fu solo del 5% (61% / 56%).

Altri paesi hanno già affrontato il dilemma americano. È noto il caso israeliano, dove le donne sono combattenti a tutti gli effetti. Altri Stati i cui ordinamenti prevedono il servizio militare obbligatorio per le femmine sono l'Eritrea, il Mali, il Marocco, la Corea del Nord e la Tunisia.
È difficile che gli americani arrivino a tanto. Con ogni probabilità la proposta di legge non giungerà mai al voto, poniamo per qualche difficoltà procedurale... Qualora però diventasse politicamente necessario agire, gli Usa potrebbero adottare lo stesso tipo di sana ipocrisia della Norvegia. Il paese nordico registra tutti i giovani di entrambi i sessi per la chiamata alla leva, salvo poi “chiamare” solo i maschi...