di ALDO ROCCO VITALE

Il 24 ottobre 1956 le strade di Budapest erano sostanzialmente vuote, a eccezione dei militari sovieticiche pattugliavano la città a bordo dei loro cingolati e dei loro blindati. Colonne di fumo che si alzavano un po’ dovunque sembrava reggessero il cielo cupo e grigio di quella mattina, mentre colpi d’arma da fuoco crepitavano dove più dove meno, come in un’eco spezzata di cicale. L’esercito ungherese che avrebbe dovuto anticipare e poi affiancare l’Armata Rossa nella repressione di ciò che da semplice manifestazione si era trasformata in vera e propria rivoluzione con morti e feriti da entrambe le parti, rinunciò; anzi, molte caserme furono aperte per consentire agli insorti compatrioti ungheresi di rifornirsi di armi e munizioni. Era la prova che i rivolgimenti non riguardavano semplicemente una classe sociale, che non fossero una cospirazione o una sedizione allargata di controrivoluzionari nemici del popolo, ma si trattava dell’intero popolo che oramai stanco degli opprimenti e miserrimi risultati della Rivoluzione d’ottobre importati a forza dall’Armata Rossa, affranto da decenni di dittatura, respingeva l’ideologia rivoluzionaria sovietica con un’altra rivoluzione. Alexis de Tocqueville ebbe a notare, in fondo, che “quando una rivoluzione non produce ordine ed equilibrio è destinata fin dalla nascita ad essere sterile; non può servire che ad una cosa sola: a far nascere delle altre rivoluzioni”. La carica ideologica della Rivoluzione bolscevica del 1917 non fece altro che generare ulteriori rivoluzioni contro se stessa, contro il bolscevismo e tutte le sue personalistiche varianti del leninismo, dello stalinismo, della destalinizzazione kruscevizzante e della dirigenza sovietica post-staliniana. Con Imre Nagy al potere e l’Armata Rossa in città i russi si illusero di poter risolvere la situazione in poche ore, ma i combattimenti si fecero sempre più aspri e l’esercito sovietico cominciò a registrare ingenti e inaspettate perdite. Il 30 ottobre, dopo una settimana di scontri armati, i russi annunciarono il ritiro: Kruscev aveva ascoltato la linea morbida dei suoi consiglieri al Cremlino, sembrando così aperta la strada per una soluzione pacifica e diplomatica. I festeggiamenti dei rivoltosi proseguirono per tutta la notte. La vittoria della rivoluzione sembrava ormai suggellata. Nagy il primo novembre dichiarò la neutralità dell’Ungheria rispetto ai due blocchi della Guerra fredda e la fuoriuscita della nazione ungherese dal Patto di Varsavia. Intanto, la promessa di ritiro dell’Armata Rossa non sembrò mai effettiva. Le truppe corazzate uscirono da Budapest, ma si acquartierarono a circa un centinaio di chilometri: in attesa di rinforzi. Kruscev aveva nuovamente avuto una delle sue tipiche inversioni di rotta: occorreva risolvere tutto con la forza e urgentemente, soprattutto dopo la dichiarazione di neutralità dell’Ungheria. Se al Cremlino non era chiara e definita la posizione da prendere sulle modalità di intervento, una cosa era cristallina: l’Ungheria doveva inevitabilmente rimanere all’interno del blocco sovietico e doveva restare, seppur con qualche piccola concessione, assolutamente e irrimediabilmente comunista. Così, centinaia di altri carri e migliaia di altri uomini si ammassarono alla periferia di Budapest fra il 2 e il 4 novembre. Il comando venne assunto dal Maresciallo dell’Unione Sovietica, Ivan Konev, giunto appositamente da Mosca per mettere a tacere definitivamente la rivolta. Un rullo compressore si stava riabbattendo su Budapest. Nella notte del 4 novembre prendeva l’avvio la nuova operazione corazzata con cui le forze sovietiche invadevano per la seconda volta la capitale ungherese. Seguirono due giorni di intensi bombardamenti a tappeto che rasero al suolo quasi tutta Budapest. I carri armati aprirono il fuoco perfino sulla folla in coda per la spesa. Il brutale massacro andò avanti per ore contro inermi civili. Nagy fuggì, Janòs Kadàr divenne primo ministro, instaurando così un regime filosovietico. La fine giunse l’11 novembre con le ultime capitolazioni di poche centinaia di insorti; i morti da parte ungherese furono circa tremila nella sola Budapest e almeno altrettanti in altri centri ungheresi. Molte centinaia furono anche le perdite nell’Armata rossa. Gli esuli, fuggiti in Austria, Francia, Inghilterra e Stati Uniti, furono più di 200.000. Kadàr al potere attuò una dura repressione contro i fautori della rivoluzione; lo stesso Nagy fu arrestato, processato ed impiccato. A livello internazionale l’Ungheria venne letteralmente abbandonata al suo destino. I Paesi occidentali non vollero e non seppero intervenire per non rompere i delicati e fragili equilibri della Guerra fredda messi già a dura prova, in quegli stessi giorni, dalla crisi del canale di Suez che aveva visto un intervento armato anglo-francese contro l’Egitto ritenuto da Mosca un prezioso alleato. Anche l’Onu, sollecitata da Nagy, fallì miseramente, impelagata com’era, e com’è, nella pachidermica burocraticità e atarassia ideologica. Al contrario l’Unione Sovietica ricevette l’appoggio oltre che di tutti i paesi del Patto di Varsavia anche della Cina e perfino della indipendente Jugoslavia comunista di Tito che cercò di sfruttare la situazione per ricucire con il Cremlino. Unico Paese dell’occidente ad avallare espressamente il criminale intervento sovietico fu l’Italia, per bocca degli alti rappresentanti del Partito Comunista italiano. L’Ungheria aveva cercato la libertà, ma trovò solo morte e la distruzione come molte nazioni che l’avevano preceduta e altre che l’avrebbero seguita nel tentativo di emanciparsi da Mosca e dal totalitarismo comunista. L’esperimento ungherese, tuttavia, fu un banco di prova formidabile per saggiare la consistenza ideologica del blocco sovietico contro cui nessuno sembrava potersi opporre, a eccezione del tempo il quale aveva già fissato il suo appuntamento con la storia in una anonima sera di metà novembre del 1989, ai piedi di un muro nel bel mezzo della città di Berlino e di quelle che presto sarebbero state le sue macerie sbriciolate, parafrasando un noto scrittore cecoslovacco che ebbe a sostenere la analoga “Primavera di Praga” del 1968, sotto l’insostenibile leggerezza della libertà.