DI MARCO FERRARI

Ci sono stati anche dei tedeschi per bene nella Seconda guerra mondiale, non tutti erano feroci come Hitler, Reder, Eichmann o Bormann. Proprio nelle zone dove le stragi naziste furono cruente, colpendo l'innocua popolazione civili dislocata sulla Linea Gotica, operò il capitano Rudolf Jacobs, appunto «Il tedesco buono», come si intitola il libro di Carlo Greppi edito da Laterza, acquistabile nel sito della casa editrice oppure su Amazon o Ibs anche in edizione ebook. Rudolf Jacobs (Brema, 26 luglio 1914 – Sarzana, 3 novembre 1944), ufficiale tedesco, capitano della Kriegsmarine, Marina militare della Germania nazista, disertò nel 1943 e combatté con le brigate partigiane della zona a cavallo tra Liguria, Toscana ed Emilia. Morì l'anno seguente durante un attacco a una caserma fascista da lui stesso progettato e non riuscito per un imprevisto. Dietro la sua storia emerge una verità mai venuta a galla: furono centinaia e centinaia i tedeschi, gli austriaci ma anche i croati a schierarsi contro i loro conterranei, scegliendo chi si batteva contro la dittatura. Un piccolo esercito senza patria e senza bandiera, una pagina unica nella storia d'Italia. Purtroppo per lui, Jacobs cadde durante l'assalto all'albergo Laurina di Sarzana (in via di recupero proprio in questo periodo) il 3 novembre 1944 quando i partigiani della brigata Muccini tentarono di attaccare quella che era la caserma dei fascisti torturatori di civili, una delle tante Villa Triste delle «brigate nere». Greppi si è messo sulle tracce di questa storia di redenzione a settantasette anni di distanza di quei fatti per testimoniare la carica di riscatto che l'ufficiale tedesco volle scrivere a costo di perdere la vita. Eppure, questi ex soldati tedeschi e austriaci furono considerati solo "banditi", "disertori", "senza patria" finché da elementi labili e quasi svaniti – un nome su una lapide, poche righe nei documenti ufficiali, qualche ricordo dei partigiani sopravvissuti –, è scaturita un'indagine appassionata e coinvolgente che ci trascina alla riscoperta di una pagina di storia che nessuno in Italia ha mai raccontato in questo modo. Rudolf Jacobs, nella sua breve vita, rovescia con il gesto finale, la morte in battaglia dalla parte giusta contro la logica perversa dell'Olocausto voluta dal nazismo.

Sui temi del libro «Il tedesco buono» edito da Laterza abbiamo intervistato l'autore, Carlo Greppi, dottore di ricerca all'Università di Torino, autore televisivo, membro del Comitato scientifico dell'Istituto Ferruccio Parri, che coordina la rete degli Istituti per la storia della Resistenza e dell'età contemporanea in Italia.

Nel libro emerge una figura cardine: quella del traditore o del disertore virtuoso. In quali circostanze e secondo quali processi interiori i protagonisti delle vicende hanno potuto compiere questo rischioso passaggio dall'altra parte della barricata, da nazisti a partigiani?

I protagonisti del mio libro sono giovani uomini o ragazzi che maturano spesso gradualmente la loro decisione irreversibile e rischiosissima: solo in alcuni casi provengono da una biografia già curvata in senso antinazista. La natura criminale della guerra voluta e combattuta su ogni fronte dal Terzo Reich è sicuramente decisiva per molti di loro, e a volte si rivela una spinta determinante il contatto con la popolazione locale e con il partigianato italiano. Conoscere il nemico, e comprendere le ragioni per cui ti combatte, può essere la miccia che porta a questo gesto straordinario. 

È possibile quantificare il numero di coloro che scelsero di diventare partigiani?

Per il fronte italiano già da decenni si intuiva che, parlando del passaggio al nemico – l'Überlaufen – si potessero ipotizzare centinaia di casi di tedeschi e austriaci unitisi alla Resistenza. Adesso sappiamo per certo che furono almeno un migliaio. Io nel mio libro, pur guidato dalla prudenza, incrociando varie fonti e raccontando molte storie innalzo ulteriormente la stima, credo in maniera convincente. Ritengo che possiamo parlare almeno di duemila persone, se non addirittura di tremila. Anche se parliamo di una piccola minoranza delle truppe d'occupazione, sono numeri impressionanti all'interno del partigianato. 

Dopo aver indagato il fenomeno della Resistenza già in altri scritti, perché hai sentito l'esigenza di approfondire ulteriormente il tema inoltrandoti in territori storici sinora inesplorati?

Trovo che queste storie siano meravigliose perché sprigionano ai nostri occhi la potenzialità che è insita in ogni essere umano. Voltare le spalle ai tuoi connazionali, nel cuore del Novecento, non è cosa da poco. E per di più farlo per combattere, fianco a fianco a degli stranieri, contro di loro. Penso che quella dell'Überläufer sia stata forse la scelta più difficile di tutte, anche perché si sapeva che non sarebbe stata perdonata facilmente, in patria. Anche se la Grande Germania avesse perso la guerra. 

Colpisce la difficoltà con la quale è possibile trarre dall'oblio e ricostruire il profilo dei combattenti tedeschi e austriaci passati con la Resistenza. In che modo sei riuscito a metterti sulle loro tracce?

Questa ricerca, e dunque questo libro, è stata una strenua battaglia contro l'oblio. Ho cercato di trascinare alla luce alcune storie, ed è stato fondamentale, in questo, l'aiuto che mi ha dato la rete degli Istituti storici della Resistenza, e in parallelo il confronto con alcuni colleghi tedeschi e austriaci o che vivono oltre le Alpi. Sono felice di essere riuscito a far intravedere il volto di alcune decine di questi combattenti per la libertà, anche per contribuire a quella che mi auguro sia la fase finale del loro lungo processo di riabilitazione.

Oltre alla distanza oggettiva, cioè alla difficoltà di reperire i documenti, non pensi che su di loro insista ancora una dimenticanza postuma fatta di ostilità anche da parte di coloro che ha beneficiato della loro azione?

Sulle loro traiettorie biografiche hanno aleggiato queste due maledizioni: se da un lato avevano combattuto contro i loro connazionali, pur per una giusta causa, e il valore di questo gesto nel Novecento non era compreso da molti, dalla prospettiva delle memorie pubbliche dei paesi occupati, Italia compresa, erano pur sempre "tedeschi". In molte comunità locali sono tuttavia ricordati con affetto, celebrati, e in alcuni casi, come quello di Rudolf Jacobs – protagonista del libro – i loro corpi sono sepolti lì. 

Quale è l'episodio che ti ha particolarmente colpito durante le tue ricerche?

Ce ne sono molti, ne ricordo qua uno. In Romagna, il 17 luglio del 1944, vengono uccise cinque persone: quattro sono giovani italiani, e del quinto non sappiamo nulla, se non un nome (italianizzato) e una provenienza. È "Giuseppe" (Joseph, forse), un austriaco che aveva disertato e si era unito alla Resistenza locale. Il suo nome ancora risuona nelle memorie del luogo, perché "Giuseppe" non fu fucilato insieme agli altri partigiani, ma ucciso a bastonate dai suoi ex commilitoni. 

Il tuo libro, pur non appartenendo al genere della saggistica narrativa, ha il respiro di un romanzo. Frutto di una scelta stilistica meditata o l'argomento reclamava, per così dire, un trattamento di questo tipo?

Credo sia importante inglobare nel racconto anche la natura stessa della ricerca, i suoi inciampi e le sue scoperte, e penso che sia coinvolgente per il lettore "fare storia" al fianco dell'autore. E amo molto, innanzitutto da lettore, la saggistica che ha "il respiro di un romanzo", per riprendere la tua felice definizione: da un decennio cerco di cimentarmi sul crinale tra fiction e non fiction scrivendo saggi, ma con grande rispetto per la dimensione fattuale e per la documentazione.  

Inoltre, questo libro si prestava particolarmente ad avere una "veste" narrativa il più possibile coinvolgente. Mi riferisco al montaggio, al pathos che traspare nelle pagine, alle immagini drammatiche o travolgenti che si impongono sulla pagina. D'altra parte, stiamo parlando di quello che è senza dubbio uno dei gesti più nobili che un uomo possa compiere, di una storia sotto molto aspetti epica, di storie raccontate troppo poco, anzi dimenticate, negli ultimi ottant'anni.