di Alessandro De Angelis

Magari non si può ancora parlare di “obbligo vaccinale” sotto mentite spoglie, però il complesso delle misure segna davvero una stretta in tal senso. Se professori e poliziotti, categoria ad alto tasso di scetticismo in materia, devono vaccinarsi per forza; se per salire su un treno regionale o su un autobus per andare al lavoro serve comunque il Green Pass, e stiamo parlando di una platea di sei milioni di persone; se, proprio nel periodo natalizio, ogni forma di attività ludica – l’abbuffata a ristorante, la palestra per smaltirla, il cinemino per svagarsi un po’, lo stadio che tanto sta a cuore a un paese di allenatori - si può fare solo da vaccinati e non da “tamponati”; e se, tutto questo, sarà soggetto a un potenziamento dei controlli, insomma si può dire che, senza vaccino, la vita diventa complicata assai. E anche abbastanza oneroso il cedimento all’ideologia no vax, o comunque la paura di iniettarsi il siero. Molto prosaicamente, se i controlli funzionano, costa tre tamponi a settimana, cifra che, nella famiglia media italiana incide eccome: tre tamponi la settimana, per quattro settimane, diciamo che è un biglietto un po’ caro per prendere un autobus.

Dunque: passa un principio – l’obbligo – per categorie più vaste rispetto alla platea di medici e operatori sanitari, e viene potenziato uno strumento che rappresenta un incentivo a vaccinarsi per essere più liberi anche per mangiarsi il capitone a ristorante, e non solo a casa propria. E poi l’esperienza insegna che le misure hanno sempre una certa gradualità. Si procede, lo racconta il metodo di questi mesi, step by step. E se anche col Green Pass normale si iniziò solo con le scuole, cinema e teatri, per poi allargarlo ai luoghi di lavoro, non è infondato, anzi la tesi trova autorevoli conferme, prevedere che anche per il Super Green Pass questa sarà la ratio. E cioè che, a scadenza a metà gennaio, se la situazione concreta lo dovesse richiedere, lo step successivo sarà un ulteriore passo verso l’obbligo di fatto, e non un allentamento.

La conferenza stampa di Mario Draghi è un fulgido esempio di una politica (non di una tecnica) in grado di assumersi la responsabilità delle scelte, e di spiegarle al paese con la forza della ragione e col linguaggio della verità. La verità di una situazione non drammatica, ma “di lieve e costante peggioramento”, in cui è necessario “prevenire per preservare i risultati” raggiunti, in termini di salute e di Pil, per non disperdere la “normalità” riconquistata di un paese che, un anno fa, era più chiuso in casa, più povero, meno capace di immaginare una prospettiva d’avvenire. Un paese stretto in una morsa del diavolo tra Pil e salute e costretto a sacrificare le ragioni del Pil in nome della salute perché ancora privo degli strumenti per combattere il virus: il vaccino, la cui campagna di distribuzione è un oggettivo merito di questo governo.

Adesso che invece quegli strumenti ci sono, uscire da quella morsa si può, coniugando benessere fisico ed economico, lotta al virus e lotta alla povertà, riscostruendo un tessuto sociale lacerato. Ogni parola del premier è una declinazione razionale del concetto di “libertà” (di “andare in giro”, “divertirsi”, “produrre”), l’opposto delle fumisterie ideologiche insite nella campagna no vax. È una sfida, resa possibile dall’ottima risposta del paese che, nella stragrande maggioranza, ha seguito la via della scienza e della ragione, con numeri superiori anche rispetto all’Europa, dove, anche per questo, la situazione è ai limiti del fuori controllo. Ma è comunque una “sfida”, prima ancora che verso una certa parte politica, rispetto al paese, ingaggiata trasmettendo ad esso fiducia. È come dire che l’Italia non è quella di piazza del Popolo che assalta la Cgil né quella del Circo Massimo o del convegno di Torino e lo sforzo, rispetto a chi nutre ancora delle perplessità è “capire e convincere”, “non criminalizzare”. È una lezione politica, perché lo Stato non è una minoranza che si contrappone alle altre, ma il luogo dell’interesse nazionale capace di proteggere anche le minoranze da sé, missione per cui è richiesta “compattezza nel governo”, alla fine raggiunta con voto unanime sia pur dopo lungo travaglio della Lega.

Certo, il dato politico di giornata è anche Salvini costretto a bere, in silenzio, l’amaro calice, per tutta una serie di ragioni e con tutta una serie di implicazioni compresa l’idea di sopportare tutto fino a febbraio, per poi sfilarsi se il premier andrà al Colle, operazione il cui presupposto è una pandemia sotto controllo. Ma quello principale è quanto funziona (molto) Draghi quando fa Draghi sul terreno dove c’è il senso della sua missione e non si sente costretto a questa o quella mediazione sulla delega fiscale o sulla concorrenza, forse anche perché sa che su tutto il resto qualche incertezza si può occultare in una responsabilità collettiva mentre una ricaduta drammatica sulla pandemia, la ragione per cui è stato chiamato, incrinerebbe, al di là della sua volontà, il suo rapporto col paese. E, semplicemente, avverte l’“obbligo” di non sbagliare.