di Anonimo Napoletano

È diventata una moda. E come tutte le tendenze, nella corsa ad inseguirle si generano spesso esagerazioni che rischiano di sfociare nel comico. Si chiama "linguaggio inclusivo" e l'Italia intera lo sta vivendo come una specie di dramma collettivo. O forse sarebbe il caso di dire farsa collettiva. Per "linguaggio inclusivo" si intende non utilizzare riferimenti al genere sessuale nell'uso della lingua scritta e parlata. Questo nel nobile intento di non discriminare non solo le donne rispetto agli uomini (dal momento che in italiano si usa il plurale maschile in presenza di più termini di generi diversi), ma anche per evitare di escludere coloro che non si sentono né donne né uomini ("trangender", "non-binary", "intersex" e chi più ne ha più ne metta).

La moda in realtà viene dal mondo anglossassone, dove però è più facile l'uso del genere neutro nella lingua, non avendo le parole quasi mai le declinazioni di genere. Così, per esempio, la catena di abbigliamento britannica Primemark, per designare la categoria premaman ha sostituito il termine "motherthood collection" con il più generico "parenthood collection", collezione per genitori. Anche se poi le persone col pancione che hanno necessità di modificare il proprio abbigliamento durante la gravidanza fino ad ora sono ancora solo ed esclusivamente donne... Sulla stessa scia, la prestigiosa rivista scientifica "Lancet" in un post sui social ha scritto "persone con la vagina" invece di "donne", anche qui scatenando forti polemiche.

In italiano la faccenda è un po' più complessa, appunto per via della varietà della nostra lingua. Così sono cominciate a fiorire le "trovate". Ricorderete che qualche tempo fa qualcuno si è inventato i termini "genitore 1" e "genitore 2", al posto di madre e padre, e passi, anche se pure lì la politica si è divisa e ne sono nate feroci battaglie ideologiche. Ma col passare del tempo la moda si è fatta sempre più prepotente. Anche sostantivi e aggettivi plurali non vanno più bene, se finiscono per “i”, eliminando tutti gli altri generi a favore solo di quello maschile (sia pur solo nel modo virtuale della grammatica). Le proposte non sono mancate, inizialmente nel mondo dei social, dove star e liberi pensatori hanno cominciato a inserire nei propri post un asterisco al posto della lettera finale che indica il genere, oppure, peggio ancora, una “ǝ”. Col risultato di leggere testi di questo tenore: “Car* amic*, siete felic*?”.

Sembrava fosse una stravaganza destinata a restare confinata sui social ma, come si sa, l'italiano medio ha una certa propensione per prendere tutto terribilmente sul serio. Così pochi giorni fa il liceo classico Cavour di Torino ha deciso che nelle comunicazioni ufficiali si userà l'asterisco al posto della declinazione di genere delle parole non neutre per, si legge in una nota dell'istituto, “fare un passo avanti nella discussione sulla questione di genere”. Quindi "student*", "ragazz*" o "alunn*". Il preside Vincenzo Salcone ha spiegato così la decisione: "L'identità e l'uguaglianza di genere sono elementi a cui attribuiamo una importanza fondamentale nella nostra comunità scolastica. E il linguaggio che utilizziamo rispecchia questo sentire. L'asterisco specifica che per noi tutti sono uguali a prescindere dalla loro identità e orientamento sessuale". Anche qui, apriti cielo, sono intervenuti esponenti di partiti di destra e di sinistra, chi contro chi a favore.

Ma la questione in realtà sembra avere poco a che fare con la politica. E sorprende che un dirigente di un liceo classico non ci abbia riflettuto. È vero che le lingue evolvono e cambiano, per carità. Ma l'evoluzione avviene sempre prima nella lingua parlata, non è (o non dovrebbe essere) decisa a tavolino per questioni morali o ideologiche. La lingua scritta segue sempre la lingua parlata, e non è mai il contrario. Ora, termini asteriscati come quelli che si vogliono introdurre non hanno equivalenti nella lingua parlata e, più semplicemente, sono segni a cui non corrisponde un suono. Per cui quelle parole scritte non possono essere lette ad alta voce. Provate un po' a dare lettura di un testo in cui molte parole abbiano al posto dell'ultima lettera un asterisco. Impossibile. Non funziona. Linguisticamente, questa invenzione è un vero disastro. Ma anche dal punto di vista dei risultati che si vogliono raggiungere, sembra andare in senso diametralmente opposto alle premesse. Proprio chi propugna l'accettazione di ogni forma di orientamento sessuale e di genere, la diversità come ricchezza, la pluralità di espressioni come massima libertà anche in campo sessuale, poi però vuole livellare il linguaggio con termini tutti neutri, indistinti, appiattendo di fatto la varietà e ricchezza della nostra lingua in un grigio burocratese che rende tutti simili.

Che poi le persone di sesso femminile o di un altro qualsiasi orientamento sessuale o di genere si debbano sentire offese o discriminate per via delle vocali con cui finiscono le parole nella nostra lingua, pare francamente un esercizio di stile. La società italiana è ancora largamente misogina, omofoba, transofoba, non nella lingua ma nella vita pratica di tutti i giorni. Queste persone di vario genere e orientamento, e persino le più comuni donne, sono quotidianamente a rischio di violenze fisiche e verbali in famiglia, nei luoghi di lavoro o semplicemente per strada. E sforzarsi di risolvere tutto con un banale asterisco sembra come voler nascondere la gravità del problema dietro la foglia di fico di una vocale. Che poi anche la parola vocale, in italiano, è di genere femminile. Finirà che dovremo scrivere vocal*?