di Juan Raso

Pensavo questa settimana di annoiarvi con una delle mie solite riflessioni, ma l’articolo di giovedí scorso – “Calvario del pasaporte...” – scritto da Esteban Valenti, mi pone davanti ad una scelta, che da tempo cercavo di evitare: tacere e quindi essere in qualche modo complice della situazione attuale o capire il dolore, l'afflizione, lo sconforto di tanti cittadini italiani in Uruguay, che soffrono in silenzio i fatti denunciati con grande coraggio ed acute osservazioni da Valenti. 

Negli ultimi cinque anni mi sono recato in Ambasciata solo una volta: il 21 marzo 2017, giorno dell’appuntamento per il rilascio di un nuovo passaporto, che sostituiva quello scaduto. In quella occasione mi ricevette con rispetto e stima la Capo della Cancellieria Vallati, mentre un funzionario, che conoscevo da un vita, mi consegnó rapidamente e con espressioni di affetto il documento. Pur cosí, non potei evitare la perquisizione che fece il security all’entrata dell’Ambasciata e che Valenti descrive con accurata precisione. Non ero io un nemico, non ero un pericolo per un'Ambasciata, con la quale avevo collaborato professionalmente durante 35 anni. Ma, poverino, il security non lo sapeva: lui era contrattualmente obbligato a trattarmi come un potenziale pericolo per la Sede e naturalmente lo faceva con encomiabile entusiasmo e pignola attenzione alle diverse parti del mio corpo. 

Oggi continuo a ricevere telefonate di persone che mi chiedono come fare per ottenere l’appuntamento del passaporto. Rispondo con franchezza che non conosco altra vía che il computer. Aggiungo che ho letto un articolo del giornale El País, dove intervistano a una ditta, che assicura per cinquecento dollari l’atteso appuntamento. Non rispondo altro, anche se dentro di me non avrei dubbi: pago i cinquecento dollari all’agenzia, che conosce le vie per procurare l’appuntamento , e mi dimentico del mio diritto alla gratuitá per l’ottenzione del noto appuntamento. 

Potrete dirmi che gli appuntamenti on-line – qualsiasi appuntamento, non solo quelli dell’Ambasciata - garantiscono l’accesso imparziale a tutti; l’algoritmo non fa differenze. Questo é un bene della modernitá: tu clikki per un appuntamento (ai registri civici, il Municipio, un tribunale, la Previdenza Sociale, etc.) e senza distinzione di sorta, i sistemi ti assegnano una data per effettuare le tue normali pratiche. 

Le piattaforme delle agende web ti danno all’istante la data, che secondo la congestione del pubblico puó essere prossima o piú distante, ma l’operazione é semplice, immediata, amichevole. Non devo cercare qualcuno a cui pagare 500 dollari per cercare un appuntamento al Municipio per il rinnovo della patente o alla Questura locale per ottenere la carta d´ídentitá.

Invece mi dicono che l´accesso via Web per l’appuntamento in Ambasciata (leggasi, Cancelleria Consolare) non é affatto amichevole e costituisce per molti una vera sfida informatica, il cui risultato dipenderebbe addirittura dalle ore di ingresso al sistema, secondo – si dice, ma nessuno lo sa - fasce orarie favorevoli o contrarie. Una idea nata per non discriminare – l’appuntamento on-line - si trasforma quindi in una grave discriminazione tra quelli che possono pagare e quelli che non possono pagare i 500 dollari, per riuscire a scavalcare la fila digitale con successo. 

Questo é un fatto grave, perché va detto che il diritto all’appuntamento gratuito e facilmente accessibile, é un diritto legato al piú sacrostanto dei diritti costituzionali, cioé il diritto al riconoscimento e certificazione della propria cittadinanza, perché da questo diritto discendono tutti gli altri.  Va aggiunto che un diritto non é piú un diritto, se la modalitá di accesso ad esso é astrusa, ermetica,  intricata  e difficile da raggiungere da parte di persone in uso di una diligenza normale. 

Le domande si accavallano: Ma quando si é sgretolato tutto il sistema, che funzionava benissimo nei primi dieci anni del 2000, malgrado giá vi fossero 100.000 cittadini di passaporto? Ma perché oggi non guardiamo piú verso l’Ambasciata con l’antico orgoglio, che ci distingueva come italiani in Uruguay? Perché, se dobbiamo recarci agli uffici consolari, lo facciamo con l’animo apprensivo e timoroso di chi affronta una prova difficile e di incerto esito? Perché se vogliamo esprimere il nostro disappunto su questa realtá – come ha fatto Valenti –subito un carabiniere ci si avvicina? Perché tutto ció in cosí pochi anni? 

Ricordo l’agrimensore “K”, il protagonista de “Il Castello” di Kafka. Il personaggio cercava in ogni modo di essere ricevuto dai burocrati del luogo e, a misura che avanza il romanzo, la frustrazione di “K” diventa espressione dell’alienazione di chi é invitato ad integrarsi ad un sistema, ma dal quale al tempo stesso é emarginato. A Esteban Valenti che si sorprende che le regole che si applicano ora sono diverse da quelle che si applicavano prima, rispondo come dice Olga a “K” nel racconto di Kafka: «Il Castello ha molti ingressi. Ora è in voga l'uno, e tutti passano di lì; ora l'altro, e il primo è disertato. Secondo quali regole avvengano questi cambiamenti, non s'è ancora potuto scoprire». 

 Confesso che di questi tempi mi piace ricordare quando l’Ambasciata era uno spazio aperto a tutti i suoi cittadini, e non una fortezza con tanto di “vietato!” per quelli di fuori, cioé noi. E un consiglio a tutti di vivo cuore: attenti a non scavalcare le mura della fortezza!