A quasi cinquant’anni dal suo riconoscimento, il diritto all’aborto negli Stati Uniti rischia di perdere quella tutela costituzionale che finora ha frenato le spinte antiabortiste di molti Stati repubblicani. Sarebbe un cambiamento epocale, perché il diritto all’aborto perderebbe quel cappello federale che finora ha impedito ai singoli Stati di imporre regole più restrittive (almeno 22 Stati vorrebbero farlo). Il presidente Joe Biden ha ribadito il suo favore alla giurisprudenza esistente – la sentenza “Roe v. Wade”, che dal ’73 fa rientrare l’aborto tra i diritti tutelati dalla Costituzione – ma la Corte Suprema sembra orientata ad accogliere almeno in parte un ricorso presentato dal Mississippi che ne minerebbe comunque le basi.

La Corte Suprema – composta da nove giudici di cui sei nominati da presidenti repubblicani (tre soltanto da Donald Trump) – è chiamata a decidere sulla costituzionalità di una legge promulgata dal Mississippi nel 2018 che vieta alle donne di abortire dopo 15 settimane di gravidanza. Un termine inferiore rispetto a quello attualmente riconosciuto dalla sentenza che la stessa Corte promulgò nel 1973, nota come “Roe v. Wade”, secondo cui la Costituzione americana protegge la libertà di una donna incinta di scegliere l’aborto, proibendo agli Stati di vietarlo prima della cosiddetta “vitalità fetale” (il periodo in cui il feto può sopravvivere fuori dall’utero) che equivale a circa 23 settimane. Il caso è estremamente importante proprio perché in America non esiste una legge nazionale che garantisca la libertà di interrompere la gravidanza: tale diritto è stabilito unicamente dalla Roe v. Wade e da una successiva sentenza del 1992, nota come “Parenthood v. Casey”, che ne ha confermato la sostanza.

In più di due ore di udienza, è emerso chiaramente come la maggior parte dei giudici sia propensa a sostenere la legge del Mississippi. E questa è di per sé una vittoria per i repubblicani e il movimento pro-life. Ma la maggioranza conservatrice è apparsa divisa su quanto lontano spingersi: se fermarsi, almeno per ora, al limite delle 15 settimane o se annullare completamente la Roe v. Wade consentendo agli Stati di vietare l’aborto in qualsiasi momento o del tutto.

La decisione è attesa non prima di giugno 2022: un arco di tempo lunghissimo in cui il dibattito sull’aborto è destinato ad assumere toni sempre più estremi, con gli antiabortisti convinti di essere a un passo dalla loro missione di fermare la “strage” di “americani mai nati”.

Nella piazza antistante la sede della Corte suprema, centinaia di manifestanti pro e contro l’aborto si sono radunati per urlare i rispettivi slogan, con momenti di tensione tra i due gruppi. È la fotografia del modo in cui è percepita oggi la Corte, un’istituzione la cui politicizzazione è da tempo un problema sollevato dagli esperti di diritto. Ma è anche la fotografia del clima con cui il Paese deve fare i conti a vari livelli, partendo da una constatazione molto semplice: la polarizzazione non è certo sparita con la dipartita di Trump dall’Ufficio ovale, ma si sta anzi radicalizzando su temi che vanno dall’aborto alla cosiddetta “teoria critica della razza”, l’arma con cui i repubblicani vogliono riprendersi il Congresso.

Il fronte dei conservatori in seno alla Corte Suprema non è un monolite, con i falchi Amy Coney Barrett, Clarence Thomas, Samuel Alito e Neil Gorsuch propensi a smantellare l’iconica sentenza del ’73 e i più moderati John Roberts e Brett Kavanaugh più prudenti, favorevoli a non andare oltre il via libera alla legge del Mississippi.

Quest’ultima prevede il divieto di aborto oltre le 15 settimane anche in caso di stupro e incesto. Più restrittivo è solo il bando varato dal Texas, che vieta l’aborto dopo sei settimane, al primo battito del feto. “Negli ultimi 50 anni la marcia del progresso nei posti di lavoro rende ormai i diritti sull’aborto non necessari, superflui, visto che oggi per le donne è molto più facile combinare famiglia e lavoro, vita professionale e vita privata”, la tesi portata davanti alla Corte dai rappresentanti legali del Mississippi, secondo i quali va anche considerato come “i progressi scientifici rendano oramai possibile che un feto sopravviva fuori dal grembo materno molto prima”.

Per i sostenitori della stretta, infine, devono essere i singoli Stati Usa a decidere su materie come questa, e non dei giudici costituzionali che non sono eletti e, dunque, non rappresentano la volontà del popolo. Una tesi sostenuta anche dall’ex vicepresidente Mike Pence, che è tornato a definire la Roe v. Wade “una sentenza sbagliata che ha colpito milioni di bambini mai nati”.

Durissimo l’intervento della giudice di nomina democratica Sonia Sotomayor, che ha puntato il dito contro chi vuole politicizzare e ridurre solo a una dimensione legata alla fede religiosa un tema come l’aborto, a danno di milioni di donne e del loro diritto di scegliere, soprattutto all’interno delle fasce e delle comunità più disagiate della popolazione. “Questa istituzione [vale a dire la Corte] sopravviverà al disgusto per la percezione pubblica che la Costituzione e la sua lettura siano solo atti politici?”, si è domandata la giudice scelta nel 2009 da Barack Obama.

Senza la Roe v. Wase – scrive il New York Times - l’aborto diventerebbe probabilmente illegale in 22 Stati. Il 41% delle donne in età fertile vedrebbe chiudere la clinica per aborti più vicina e la distanza media che dovrebbero percorrere per raggiungerne una sarebbe di 280 miglia, rispetto alle 36 miglia attuali. In termini pratici, annullare Roe renderebbe l’aborto inaccessibile a molte donne povere.

Forti della situazione legislativa in Texas e nel Mississippi, una dozzina di Stati conservatori che hanno già varato leggi che stabiliscono il divieto all’aborto - a partire da 6, 8, 10 o 12 settimane - ora attendono il via libera della Corte costituzionale per attuarle. Una dozzina di altri Stati sono pronti a muoversi nella stessa direzione. Il Washington Post ha pubblicato una mappa di come la legislazione sull’aborto apparirebbe nel caso di un annullamento della Roe v. Wade: un Paese diviso, un mosaico dove lo Stato di nascita determinerebbe il diritto delle donne di scegliere.