Di GAETANO MASCIULLO

L'Italia è un Paese di scrittori. Tutti scrivono, pochi leggono. Pochissimi – mi verrebbe da aggiungere – sanno leggere, cioè hanno le competenze culturali per comprendere a pieno quello che pongono dinanzi agli occhi. È un meccanismo perverso, che manifesta una “occulta arroganza” da parte dell’italiano medio. Scrivere, infatti, è un atto più complesso del leggere. Per molte civiltà antiche, scrivere era considerato un atto sacro. Eppure, vediamo come, piegati dalle sole logiche del marketing, tutti – davvero tutti: calciatori, veline, cuochi – scrivono libri per dire la propria indispensabile idea sulla vita umana. Il fine della letteratura – inserita tradizionalmente tra le sette belle arti – è però quello, come potrebbe suggerire una falsa etimologia della parola ‘libro’, di rendere liberi, o almeno di contribuire ad avere una visione più unitaria e generale del cosmo in cui viviamo e, con essa, una maggiore sapienza e consapevolezza. Invece, la letteratura contemporanea è succube di due grandi morbi che sempre affliggono l’arte in periodi di crollo sociale e morale. Il primo morbo è la “sovrabbondanza di produzione”: tutti scrivono, il che equivale a dire che nessuno scrive. Infatti, quando nel mercato c’è un eccesso di produzione, si determina una crisi. L’oggetto è così scontato che nessuno o quasi più lo desidera: paradossalmente, viviamo in un secolo buio (non mi piace usare il termine “medioevo”). Non solo l’oscurità, ma anche l’eccesso di luce rende ciechi. Il secondo morbo, effetto del primo, è la “democratizzazione dell’arte”. L’arte non è democratica, checché ne dicano certi ideologi, bensì elitaria per natura, perché pochi hanno le predisposizioni e i talenti per produrre opere meritorie. Quando tutti sono artisti, quelli veri si confondono nella massa, sono riconosciuti con difficoltà (o addirittura mai scrutati), e spesso sono incentivati inconsciamente a non produrre, perché i veri artisti hanno un senso più spiccato del bello rispetto alla massa e, dinanzi alla vastità del brutto, decidono per coerenza piuttosto di non scrivere nulla, per evitare il rischio di rimestare un’acqua già fin troppo intorbidita. Nell’ambito del mercato editoriale, il genere più letto rimane – com’è ovvio che sia – quello della narrativa. La saggistica rimane appannaggio degli studiosi e degli appassionati, ma la narrativa è capace di parlare a tutti gli uomini e a tutte le donne. Ma non per questo motivo la narrativa è da considerare un genere più semplice da produrre, anzi: proprio perché essa ha nel popolo il proprio destino, essa è la più difficile da produrre. Se la saggistica nutre direttamente l’intelletto, la narrativa lo fa indirettamente, attraverso due canali psichici fondamentali: le emozioni e la fantasia. Oggi moltissimi ritengono di saper scrivere un racconto o addirittura un romanzo, ma quanti riflettono e conoscono la natura dell’arte sublime e quasi misterica con cui pretendono di confrontarsi? Possiamo intuire quanti generi esistano di narrativa considerando attentamente la natura psichica dell’essere umano. L’anima dell’uomo – ciò che lo rende animato e vivo in quanto uomo, diverso da tutte le altre bestie del cielo, della terra e del mare – è strutturata come un castello. Al piano più alto c’è l’intelletto, che apprende dal mondo esterno, e la volontà, che orienta le azioni; al piano intermedio c’è la parte cosiddetta sensitiva, divisa tra una parte sensorialee una parte emotiva; il piano infimo è quello delle pulsioni: la fame, la sete, il sonno, la libidine. Chiaramente la letteratura interagisce con i due piani più alti del castello psichico dell’essere umano. Abbiamo così tre generi fondamentali di narrativa: il realistico, il sentimentale e il fantastico. Il realistico è il genere di narrativa più prossimo alla saggistica, perché va a nutrire quasi direttamente l’intelletto, descrivendo contesti e relazioni inventate dall’autore, ma che l’intelletto facilmente riconosce nell’ambiente con cui esso è già entrato in contatto. Esso è il meno difficile da produrre e il più facile nella fruizione e, difatti, è il secondo genere più letto di narrativa dopo quello sentimentale. Il genere narrativo realistico ha però il triste primato di essere quello più piegato alle ideologie del mondo, usato per inculcare ai lettori il modo politicamente corretto di interpretare il mondo. Abbiamo detto poi che la parte sensitiva dell’anima è come suddivisa in due grandi scomparti: quella delle emozioni e quella dei sensi. Quando parliamo di sensi, non dobbiamo pensare solo ai cinque sensi esterni, ma anche a quelli “interni”, che pure usiamo ogni giorno per conoscere quanto ci circonda. La memoria, la fantasia e gli istinti sono alcuni di questi. Tra i sensi interni, quello più “libero” è certamente l’immaginazione o fantasia. Su di essa la narrativa fantastica trova il proprio terreno fertile. Bisogna poi considerare che sensi interni ed emozioni sono collegate tra loro in maniera molto intensa, ma secondo canali diversi. La memoria infatti può suscitare emozioni come l’amore, l’odio, la gioia, la tristezza, la rabbia, cioè tutte quelle emozioni che hanno a che fare con un oggetto presente, o perché si trova davanti ai propri occhi o perché è reso come presente agli occhi della mente in virtù del ricordo. In questa relazione tra memoria ed emozioni orientate al presente l’elemento predominante è segnato da queste ultime. A esse, infatti, mira la narrativa sentimentale. È evidente allora che la descrizione sarà più vivida nella narrativa realistica e in quella sentimentale, proprio perché essa deve fornire all’anima la parvenza del ricordo e del già noto. Discorso totalmente diverso vale per l’ultimo genere di narrativa, quello meno letto, perché più spiritualmente impegnativo, ossia la narrativa fantastica. Anche la fantasia è un senso interno e anch’essa è capace di suscitare emozioni, le quali però a differenza di quelle suscitate dal ricordo sono orientate “verso il futuro”, verso oggetti che non sono ancora in qualche modo presenti: il desiderio, la speranza, il coraggio, la paura. Ne segue pertanto che le descrizioni della letteratura fantastica non sono mai vivide e le intenzioni dell’autore non sono mai spiegate in maniera meticolosa. Per questa ragione, la letteratura fantastica è quella più difficile da sottomettere alle ragioni della politica: è la più “libertaria” delle narrative. Si pensi al maestro per eccellenza del genere fantastico, l’inglese John R. R. Tolkien, autore de Il Signore degli anelli. Da decenni, ideologi di destra e di sinistra cercano di portare lo scrittore tra le proprie fila di partito, invano. L’altro grande maestro del fantastico, il “solitario di Providence”, Howard P. Lovecraft, subisce un destino analogo. In entrambi gli autori, le descrizioni non sono mai sensibili, ma tutte lasciano alla fantasia la libertà di vagare e scrutare, creare interi universi immaginifici. Così Lovecraft riesce addirittura a sottrarre alla sensibilità la descrizione di ciò che è massimamente sensibile, cioè il colore, in un racconto intitolato – appunto – Il colore venuto dallo spazio, dove narra di un fenomeno astronomico impossibile da definire, eppure così vivido. Anche i personaggi del capolavoro tolkieniano non sono descritti in maniera vivida. Le loro sembianze, fisiche e psicologiche, sono lasciate all’intuizione del lettore e l’unico personaggio descritto meticolosamente dall’autore, il misterioso Tom Bombadil, come spiega Paolo Nardi ne Leggiamo insieme Il Signore degli anelli (Fede & Cultura, 2021), è anche quello più misterioso, tanto che il dibattito tra gli esegeti di Tolkien è ancora lontano dalla soluzione: nessuno sa chi egli sia o cosa intenda rappresentare.