DI Marco Lupis

A Zhangjiakou, un centinaio di chilometri a nord-ovest di Pechino, cinque enormi anelli olimpici colorati sostengono il grande viadotto dell’autostrada. La località è una delle tre aree principali che ospiteranno i prossimi giochi olimpici invernali di Pechino 2022, e qui come altrove fervono i preparativi, sempre più febbrili con l’approssimarsi dell’evento. In particolare, Zhangjiakou sarà la sede del Villaggio Olimpico Invernale, dove gli atleti potranno riposarsi su letti intelligenti regolabili, provvisti di sensori che invieranno i dati raccolti dai materassi memory ad appositi software, in grado di fornire un’analisi in tempo reale – attraverso gli algoritmi dell’ Intelligenza Artificiale – delle condizioni fisico-psichiche degli atleti, mentre quando l’atleta è sdraiato sul letto, il materasso si regolerà automaticamente in base alle curve del suo corpo per mantenerlo nello stato più confortevole.

“Uno sforzo senza precedenti” – ha scritto di recente il tabloid del Partito Comunista Cinese, il Global Times – “unisce tutto il Paese nel conto alla rovescia per il prossimo, grande evento olimpico”, ed infatti dappertutto sono al lavoro tecnici, ingegneri e ruspe, per non farsi trovare impreparati all’apertura della 24a edizione delle Olimpiadi invernali, che inizierà a Pechino il 4 febbraio 2022, meno di sei mesi dopo la fine dei Giochi estivi di Tokyo. “Una grande festa che unirà il Paese sotto la bandiera universale dello sport” insiste la martellante retorica nazionalista voluta dal presidente Xi Jinping e dal Partito, decisi a fare di questo evento sportivo una vetrina planetaria per il Dragone. Ma qualcuno sta lavorando alacremente, già da tempo, per rovinare questa bella festicciola olimpica in salsa cinese, con la ferma intenzione di punire Pechino per lo scarso rispetto – usando un eufemismo – per i diritti umani. E mentre di ora in ora nuove nazioni si uniscono al boicottaggio Usa dei giochi invernali di Beijing2022, la situazione dei diritti umani in Cina peggiora. E Reporter Senza Frontiere Rsf lancia l’allarme sull’”enorme balzo all’indietro” della libertà di stampa e della democrazia a Hong Kong e in tutta la Cina.

Il presidente cinese Xi Jinping ha creato un vero e proprio “incubo” di oppressione mediatica degno dell’era di Mao, e il giornalismo di Hong Kong è in “caduta libera”, si legge tra le altre affermazioni nel rapporto pubblicato oggi da Amnesty, che scrive anche come “censura e sorveglianza online” siano “tra i primi strumenti utilizzati da Pechino per limitare l’attività giornalistica e la libertà di espressione”. Sono almeno dieci, sostiene il rapporto di Rsf, i giornalisti e i commentatori online che sono stati arrestati per avere documentato la crisi del coronavirus a Wuhan, mentre sono almeno 127 i giornalisti attualmente detenuti dal governo cinese, che il rapporto descrive come “il più grande sequestratore di reporter al mondo”. Rsf denuncia anche il fatto che tutti i giornalisti cinesi devono seguire una formazione obbligatoria incentrata sul pensiero di Xi Jinping, obbligati ad utilizzare un’app apposita sul loro smartphone chiamata “Studia Xi, rafforza il Paese”, che secondo gli esperti di sicurezza informatica consentirebbe la raccolta di dati personali ed addirittura l’accesso remoto al microfono del loro dispositivo. I giornalisti, insiste Reporter Senza Frontiere, sono in pratica costretti a farsi megafono del Partito, mentre la Cina limita o impedisce l’ingresso o la presenza nel Paese di reporter stranieri, per censura i temi più sensibili, come Tibet, Xinjiang e #MeToo.

Così queste prossime Olimpiadi invernali si possono già iscrivere tra le più controverse della storia dello sport. Perché si svolgono nel bel mezzo di una pandemia globale e in un paese che non consente la libertà di espressione e la libertà di stampa, fa scomparire gli oppositori politici e imprigiona in “campi di rieducazione” le etnie minoritarie – religiose o meno – che si ostinano a non volersi sottomettere al pensiero unico del “socialismo con caratteristiche cinesi”- ovvero la dittatura del Partito unico Comunista - voluto ad ogni costo da Xi. Il quale – per bocca dei suoi diplomatici – ha protestato energicamente contro la “violazione della neutralità politica nello sport” attuata dal governo di Washington e dagli alleati, con il boicottaggio olimpico. Ieri, Il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Zhao Lijian, aveva dichiarato ai media che il tentativo degli Stati Uniti di interferire con le Olimpiadi di Pechino è “completamente fuori dalla realtà”, si basa sul “pregiudizio ideologico” e su “voci e bugie”.

La veemente protesta cinese, però, non sembra avere impressionato Paesi come Australia, Gran Bretagna e Nuova Zelanda, che si sono di recente aggiunti all’elenco delle nazioni “boicottatrici”, e non manderanno i loro atleti alla competizione olimpica. Mentre molti altri stanno annunciando che non invieranno rappresentanti ufficiali, lasciando invece libertà di decidere se partecipare o meno alle proprie squadre sportive. L’ultima adesione in tal senso è arrivata stamattina dal Re Guglielmo Alessandro d’Olanda, che ha ufficialmente annunciato che non andrà ai Giochi invernali in Cina. Il sovrano dei Paesi Bassi è un grande sportivo, che non aveva voluto mancare ai precedenti giochi invernali di Pyeongchang in Corea nel 2018, ma stavolta ha deciso di dare l’esempio.

L’attenzione internazionale sugli stretti legami tra mondo dello sport – anche quello ad alto ed altissimo livello – in Cina e libertà fondamentali negate, era stata incrementata dalla recente vicenda della campionessa di tennis Peng Shuai, scomparsa nel nulla dopo aver denunciato sui social cinesi di essere stata molestata e avere subito violenza dall’ex vicepremier – molto più anziano di lei - Zhang Gaoli. Nel suo coraggioso post di denuncia su Weibo – il Twitter cinese – che è stato fatto sparire dal web dopo meno di mezzora ad opera dell’efficientissima macchina della censura di Pechino, Peng scriveva letteralmente, rivolgendosi al potente uomo politico che le avrebbe usato violenza: “Anche se rischio di disintegrarmi, come un uovo scagliato contro una roccia, sono pronta a dire la verità sul tuo conto”. A seguito di una vera e propria campagna di indignazione mediatica globale, la campionessa sarebbe riapparsa in alcune foto e video, che però non hanno rassicurato nessuno. Tanto che il presidente della Woman Tennis Association WTA, Steve Simon, ha deciso di sospendere tutti i tornei WTA in Cina, di fronte all’impossibilità di contattare personalmente Peng e dicendosi ancora preoccupato per la sua libertà di movimento e per la sua sicurezza: “le recenti dichiarazioni attribuite a Peng dove dice di stare bene e ritratta tutte le accuse , invece di rassicurarmi hanno aumentato la mia inquietudine” ha dichiarato Simon, che ha aggiunto “è davvero disturbante pensare che la vittima di una violenza potrebbe essere stata costretta a negarla pubblicamente (…) in questa situazione non vedo come potrei autorizzare le mie atlete a recarsi in Cina”.

Del resto, è innegabile che il mondo dello sport in Cina rifletta in pieno la mancanza di democrazia e di libertà che affligge tutta la società cinese attuale. Chiunque voglia esercitare la propria professione di atleta in Cina dipende infatti totalmente dalla benevolenza del Partito Comunista al potere. Questo vale non solo per gli stranieri, ma soprattutto per gli sportivi cinesi, come dimostra il caso Peng Shuai. Ma il vero problema, è che Il governo cinese è da sempre ossessionato da giochi di massa come le Olimpiadi, più o meno nello steso modo in cui la Corea del Nord, l’URSS e altre dittature hanno sempre attribuito un livello di importanza enorme ai successi sportivi. “La catena di montaggio cinese dello sport ha un solo scopo: sfornare medaglie d’oro per la gloria del paese”, ha scritto il New York Times, che ha anche definito il sistema di selezione degli atleti in Cina un sistema “improntato al modello sovietico”. In Cina, infatti, il sistema di selezione è totalmente gestito dal Partito Comunista – ovvero dalla Stato – e può contare su di un enorme bacino di individui, attraverso i quali selezionare e formare migliaia di bambini e bambine da far allenare in oltre duemila accademie sportive gestite dal governo, con tecniche di reclutamento e allenamento a dir poco discutibili. I bambini e i ragazzi speso vengono indirizzati forzatamente verso un certo sport, senza tenere minimamente in conto la loro volontà. Nelle accademie sportive i giovani atleti vengono spesso sottoposti a regimi di allenamento che rasentano la coercizione; viene loro impedito di vedere le loro famiglie e gli viene imposto di tralasciare la scuola e qualsiasi forma di educazione non sportiva.

Il sistema sportivo cinese, poi, macina letteralmente le vite degli atleti. Per quei pochi che hanno successo e magari riescono a vincere una medaglia olimpica, infatti, e che per questo possono accedere a guadagni altrimenti impensabili, attraverso le sponsorizzazioni, c’è la vita grama alla quale vanno incontro decine di migliaia di altri bambini che non ce la fanno: atleti falliti e per questo impietosamente scartati dalla macchina inesorabile del Partito, destinati ad una vita molto difficile, con un’educazione scarsa o addirittura inesistente, i loro fisici deteriorati dagli allenamenti intensivi e poche o nessuna prospettiva professionale per la loro vita adulta.

Insomma, non c’è soltanto la – sacrosanta – protesta contro le palesi violazioni dei diritti umani in Tibet, a Hong Kong e nello Xinjiang a motivare l’adesione al boicottaggio delle prossime olimpiadi invernali di Pechino. E l’Italia, che finora ha mantenuto un atteggiamento pilatesco, e che sembra comunque escludere l’adesione del nostro Paese al boicottaggio, farebbe bene a riflettere con attenzione sul punto.