Chi si aspettava una legge di Bilancio coraggiosa dovrà ricredersi. Chiamato a scrivere il suo atto più importante, il governo Draghi ha scelto la strada notarile. L’Esecutivo ha preso atto delle richieste dei singoli partiti, dando a ciascuno qualcosa, nel tentativo di non scontentare nessuno dei grandi elettori che tra poco più di un mese saranno chiamati ad eleggere il presidente della Repubblica. Una confusione, quella tra la corsa al Colle e la manovra di Bilancio, che non promette nulla di buono. Lo dimostrano le defatiganti trattative portate avanti con il sistema dei tavoli separati, rituali vecchi che mal si sposano con il decisionismo che ha fin qui caratterizzato l’azione del governo Draghi. Anzi, a ben guardare ne rappresentano proprio la negazione. Un metodo che rischia di aggravare ancora di più quegli elementi di logoramento della maggioranza ormai evidenti da alcune settimane e già confermati dalla baraonda scatenatasi sul decreto fiscale. Chi si aspettava una manovra straordinaria per tempi straordinari è rimasto deluso. Ci restano una riduzione fiscale minima e priva di ambizioni; una mediazione su Quota 100 che serve solo a rinviare il problema di un anno; la conferma del Reddito di cittadinanza con piccole modifiche che non ne cambiano la struttura. Il tutto mentre nessuno parla del livello record che quest’anno raggiungeranno la spesa pubblica (sopra i mille miliardi), il deficit (ancora superiore al 9% del Pil) e il debito (153,5% del Pil). Risultati deludenti, dovuti all’incrocio tra le esigenze della legge di Bilancio e quelle della corsa al Colle. Va detto che Enrico Letta ci aveva visto giusto quando aveva chiesto un “patto” di maggioranza sulla manovra per arrivare in un clima più disteso alla discussione sul prossimo Capo dello Stato, preservando Draghi dal logoramento. Proprio l’assenza di un “patto” sta invece aggravando la confusione. Da quando il premier ha fatto di tutto per lasciare intendere di essere disponibile per la Presidenza della Repubblica, l’Esecutivo è entrato in una “fase due”. Una fase fatta d’incontri, mediazioni (puntualmente al ribasso) e trattative che non stanno portando i risultati sperati. Anzi. Draghi si ritrova anche ad inseguire Cgil e Uil che hanno messo sul tavolo l’arma dello sciopero generale che finirà per indebolire ancora di più la manovra, accentuandone ulteriormente il carattere redistribuivo e non produttivistico. Il giochetto contabile di anticipare al 2021 alcune spese, liberando così 800 milioni contro il caro-bollette, la dice lunga sulla volontà “ecumenica” del premier. L’impressione è di essere tornati nelle sabbie mobili della peggiore concertazione: quella in cui il potere di veto di questa o quella forza politica o sociale finiva per bloccare, o quantomeno annacquare, le decisioni. Non si spiega diversamente il diluvio di emendamenti che puntano a paralizzare il Governo in una palude troppe volte vista in passato. Solo pochi mesi fa sarebbe stato impensabile, i partiti non avrebbero potuto permetterselo. Oggi no. Le forze politiche sanno che se Draghi vuole salire al Colle è da loro che dovrà passare. Di conseguenza giocano sul fatto che il capo del Governo non può tendere troppo la corda se non vuol finire inchiodato a Palazzo Chigi fino al 2023. A tutto detrimento dei provvedimenti. Parliamoci chiaro: non è più tempo di chiacchiere o di tattiche strumentali, come quelle messe in scena a fini elettorali su una manovra che mette appena 8 miliardi sulla riduzione delle imposte. Bisognerebbe chiedersi quali spese tagliare al fine di rimpinguare il tesoretto per decurtare sul serio le tasse (questa manovra vale meno degli 80 euro di Renzi); come evitare che le risorse siano scialacquate dal partito della spesa; in che modo usarle non per finanziare la politica delle elemosine, ma per provare a rendere l’Italia più accogliente attraverso una poderosa operazione di abbattimento fiscale. Il contrario della palude pre-elettorale.

VINCENZO NARDIELLO