Di Marina Carrese

 

 Da quel 25 dicembre 1223, quando san Francesco allestì il primo, nella campagna di Greccio, il presepe è divenuto la tradizione natalizia cattolica più diffusa al mondo. Tradizione popolare presto nobilitata a vera e propria forma d’arte, che ha trovato a Napoli una dimensione del tutto particolare, divenendo parte non secondaria del patrimonio storico, artistico e culturale della città, tanto da far dire al famoso collezionista Michele Cuciniello che «il presepio è Vangelo tradotto in dialetto partenopeo». Nel corso dei secoli, scultori e ceramisti di fama si sono dedicati all’arte presepiale, considerata non certo un’arte minore se il re Ferdinando I di Borbone decise di donare al Re di Spagna, suo fratello Carlo IV, due pastori, un uomo e una donna simbolo dei “possedimenti di qua e di là dal faro”, cioè del Regno delle Due Sicilie, che ancora oggi fanno parte del tesoro della Corona spagnola. Quasi a riprova della loro napoletanità, i Sovrani delle Due Sicilie amarono molto il presepe. Carlo di Borbone ne faceva allestire uno, nella Sala Ellittica della Reggia di Caserta, composto da oltre 1.200 figure - i cui abiti erano cuciti personalmente dalla regina Maria Amalia e dalle dame di Corte - che rimaneva esposto fino al 2 febbraio, la Candelora, giorno in cui secondo la tradizione i re Magi partirono da Betlemme. La ricchezza simbolica e allegorica del presepe napoletano è il felice risultato dell’ ingegno degli artigiani locali e del carisma spirituale di molti santi, in particolare di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori (1696-1787), che con le sue Cappelle serotine, catechesi rivolte al popolo, radicò il senso profondo della dottrina e del combattimento spirituale come via di salvezza. Sant’Alfonso fu autore del canto natalizio per eccellenza, Tu scendi dalle stelle, e di altri come Quanno nascette Ninno e Fermarono i cieli la loro armonia. La tradizione codificò sin dall’inizio le “regole” per allestire il presepe napoletano: lo scoglio di sughero con le tre colline, le rovine del tempio romano con la Natività, i pastori del cammino sparsi sul proscenio, figura dell’umanità in cammino verso la salvezza che dà il senso dell’incompiuto, dell’attesa. Tra questi, non possono mancare il “pastore della meraviglia” con le braccia allargate e gli occhi spalancati, il vecchietto che reca in dono la ricotta, annuncio della natura che si rinnova, e Benino, il pastorello dormiente che sogna il presepe stesso. Sulle alture laterali, l’osteria e la macelleria, simboli delle passioni terrene, e il carretto guidato da Cicci Bacco sul ponte che porta al vizio e alla dannazione. Ai piedi della collina, il ricco e colorato accampamento dei Re Magi, ispirato ad un evento storico: l’arrivo a Napoli, nel 1741, dell’ambasciatore tunisino Hagi Hussein Effendi, con un seguito da Mille e una notte. Incredibile mescolanza di passato e presente, di realtà e simbolo, il presepe napoletano rende visibile ciò che è spirituale e rammenta agli uomini di tutti i tempi che la nascita del Salvatore è l’evento straordinario al quale ognuno di noi è chiamato ad essere presente.