di Mauro Garofalo

 

Viviamo nello stesso habitat di giganti da 15 metri di lunghezza, pesanti 30 tonnellate. E se ci trovassimo di fronte a una balena, come reagiremmo? Parte da un’esperienza realmente accaduta, Le regine dell’abisso di Rebecca Giggs (Aboca, trad.it. Teresa Albanese, 28 euro), dall’emblematico sottotitolo Come la vita delle balene ci svela il nostro posto nel mondo. Giggs è autrice australiana, i suoi articoli sono apparsi su The Atlantic, The New York Times Magazine, Granta. Con Le regine dell’abisso, libro d’esordio, ha vinto la medaglia Carnegie 2021 per l’eccellenza nella saggistica.

La morte della balena spiaggiata, la dilatazione dell’ordinario come la chiama Giggs, dura un attimo. Tutto quel che accade dopo è il solito carosello della società “usa-e-getta” in cui viviamo.

Se una balena muore sulla spiaggia, nessuno si domanda quali siano i veri motivi, piuttosto ci si chiederà chi si occupa della pratica burocratica dello smaltimento. Mentre i soliti curiosi si faranno foto attorno al cadavere, con il segno della “V” (ma quale vittoria, di chi e rispetto a cosa?).

“A quali profondità scorre la storia che collega le balene e gli esseri umani?”, ci chiede l’autrice de Le regine dell’abisso. Siamo diventati una società di superficie, a differenza delle enormi balenottere azzurre (che con i loro 30 metri di lunghezza e 180 tonnellate di peso, sono il più grande animale della Terra) che viaggiano in profondità.

Non cerchiamo di capire i perché. Continuiamo a comprare, a usare petrolio. A utilizzare sostanze chimiche cancerogene, soprattutto in agricoltura. Solo che, siccome è tutto collegato, scrive Giggs e l’uomo è (anche) ciò che mangia: “Alle donne Inuit della Groenlandia, che consumano stagionalmente carne di cetaceo era stato consigliato di non mangiare beluga durante la gravidanza e di smettere comunque di allattare i neonati”, sembra un film catastrofista e invece l’autrice riporta un pezzo del documentario Planet Earth: The Future della BBC.

Le nostre azioni quotidiane hanno un peso dunque. Formano una rete, una maglia di conseguenze sulla vita che ci sta attorno: abitiamo la Terra come se fosse solo nostra. Invece ci sono animali da 30 tonnellate - non proprio invisibili - che la abitano insieme a noi. Creature dalla bellezza straordinaria. E una volta finito lo straordinario, quando anche le balene si saranno estinte, cosa fotograferemo?

Sempre sui giganti del mare, abbiamo poi letto in anteprima il romanzo di John Ironmonger, La balena alla fine del mondo (Bollati Boringhieri, €18, trad.it. Simona Garavelli) anche il libro dello zoologo keniota inizia con l’avvistamento di un cetaceo. Solo che qui il leviatano è uno spunto narrativo per trattare della dimensione della vita: cos’è grande, cos’è piccolo nel nostro quotidiano sul pianeta?

Ne La balena alla fine del mondo il corpo nudo di un uomo viene ritrovato sulle coste del villaggio di St Piran. E subito dopo emerge dall’oceano il corpaccione di una balena: è qui che facciamo la conoscenza di Joe Haak, un analista informatico in grado di prevedere, con il suo programma che studia l’andamento dei mercati, qualsiasi butterfly effect. E in tempi di pandemia, ovvero al tempo in cui un pipistrello attraverso un pangolino ha messo in ginocchio l’umanità, pare una metafora piuttosto credibile.

La favola contemporanea di Ironmonger è un insegnamento sul modo in cui ogni nostra singola azione ha conseguenze a cascata su tutto il resto, proprio come nella strampalata avventura di Joe. E così, se unissimo i puntini del presente con il futuro, vedremmo che all’orizzonte non c’è “Niente di buono” e torneremmo subito indietro sui nostri passi. Che si debba tornare tutti ad abitare in villaggi puzzolenti di pesce a morire di noia, dunque? Forse no, suggerisce l’autore. Ma forse l’unica cosa intelligente sarebbe davvero voltare pagina. Prendere finalmente il rischio di fare scelte che possono cambiarci la vita. Come Joe che alla fine parte verso un’avventura nuova che si chiama, domani, in cui verremo finalmente a patti con la Natura.