Mario Draghi (foto depositphotos)

L’Italia è salva, perché​ Sergio Mattarella è un grande presidente, punto. Poca retorica, siamo asciutti, perché proprio l’eccezionalità lo impone. È salvo il governo, che non era scontato in queste consultazioni segnate da un revival dell’alleanza gialloverde. Ed è salvo anche Draghi che, una volta preso atto dell’impossibilità di essere il kingmaker di sé, ha contribuito a preservare la stabilità attraverso un appello, privato, a Mattarella. E adesso può tornare a “fare Draghi”​ recuperando slancio​ in quell’azione di governo che si è perso proprio nel momento in cui la sua candidatura al Quirinale gli ha tolto la forza della terzietà, costringendolo ad estenuanti mediazioni nelle ultime settimane.

 

Bene, un successo per il paese coincide con un ennesimo collasso del sistema politico, incapace di produrre soluzioni fisiologiche fuori dall’eccezionalità. Da ricostruire dalle fondamenta. Non è accaduto dopo bis di Giorgio Napolitano né dopo l’arrivo di Draghi a palazzo Chigi, entrambe grandi occasioni per un riscatto della politica, proprio sul terreno di un governo fondato su una collaborazione mai diventata reciproco riconoscimento. Adesso un nuovo bis, il secondo in un decennio, cui è stato costretto il capo dello Stato, in una situazione in cui la necessità è stata più forte della volontà.

Evviva, dicono adesso tutti, vincitori e sconfitti, secondo l’antico tic dell’immediata rimozione delle responsabilità o, se preferite, della polvere sotto il tappeto. Se fosse stata una scelta arrivata per “convinzione” lunedì avrebbe avuto il sapore di una scelta consapevole e di una politica capace di esercitare una funzione. Arrivata per “consunzione” è la fotografia di una classe dirigente de-strutturata in un sistema destrutturato, di cui neanche i migliori – Draghi e Mattarella appunto – possono fare le veci. È vero, non tutte le leadership escono ammaccate alla stessa maniera. Hanno vinto Enrico Letta, che con pazienza ha giocato di rimessa considerati i rapporti di forza, e Luigi Di Maio, abili nell’assecondare la “saggezza del Parlamento” e nel far precipitare i tentativi di spallata, reiteratamente messi in campo dal revival gialloverde. In fondo, è così: “o Draghi o Mattarella” disse il segretario del Pd una settimana fa, e lì si è arrivati.

 

Mentre Salvini, il grande sconfitto, ha dimostrato, all’ennesima prova di maturità non superata, di non riuscire a incarnare una leadership propositiva, capace di costruire. E non c’entra il populismo, perché esistono anche i populisti in grado di costruire trame politiche. Con lui Giorgia Meloni, che ha vincolato il sostegno a Draghi non a un progetto politico ambizioso di ricollocazione e legittimazione europea, ma alla richiesta di elezioni anticipate per finire a votare Nordio da sola. Gianfranco Fini, all’età di 47 anni, assieme a Gianni Letta e con la regia di Walter Veltroni fu protagonista dell’operazione Ciampi. Salvini a 48 anni e Giorgia Meloni a 45, nella reciproca competizione hanno contribuito a terremotare il centrodestra italiano. A proposito, Conte: al dunque è riuscito solo ad aderire alle altrui posizioni, rivelando la natura di una leadership senza principi solidi di riferimento.

 

Il vero vincitore è l’astuzia della ragione, che ha trovato il veicolo giudicato in questi anni meno presentabile: quel tanto vituperato Parlamento, di cui è stato detto di tutto in un’orgia di qualunquismo – gli stipendi, le pensioni, la volontà di conservazione – che, in regime di quasi autogestione ha dato il meglio di sé rispetto al tavolo delle alchimie dei leader.

 

Proprio questo ennesimo capitolo del collasso dei partiti consente al governo, in attesa che qualcuno pensi a ricostruire il sistema politico, una vera ripartenza. Perché Draghi torna terzo, e può agire solo sulla base di una visione dell’interesse nazionale e non dell’interesse dei partiti; perché nessuno, dopo quello che è successo può permettersi di mettere in discussione questo assetto, tantomeno leadership deboli dopo la capitolazione quirinalizia; perché Draghi stesso, ora che non ha più l’orizzonte del Colle, ha come obiettivo solo gli obiettivi per cui è stato chiamato. Si capisce che, soprattutto per la destra, ma tra un po’ accadrà a tutti, finito il Quirinale arriverà la campagna elettorale. E ricomincerà l’andazzo di bandierine più o meno legittime se, proprio oggi, Salvini e Giorgetti chiedono un incontro per lamentarsi dal fuoco amico della sinistra. Un’agenda del Nord cui qualcun altro contrapporrà un’agenda del sud e qualcun altro un’agenda del centro, e così via. Il governo esce ammaccato dalla conflittualità di questa settimana ma proprio la conferma di Mattarella consente al premier di non apparire bocciato, agli occhi dell’opinione pubblica, cosa che sarebbe stata con qualunque altro presidente. E di trovare, nell’ambito di una coppia istituzionale che finora ha consentito di uscire dal momento peggiore della crisi, una ripartenza vera.