DI LUIGI IOVINO

Napoli non finisce mai di stupire. Nuovi prodotti identificativi si aggiungono ai vecchi e la città si ripropone in modo sempre più affascinante ed attuale. Non ci sono solo la pizza, gli spaghetti al pomodoro e la mozzarella di bufala, ma una nuova classe di prodotti agroalimentari si afferma, arricchendo la proposta gastronomica napoletana, riconosciuta a livello mondiale. Si tratta di prodotti coltivati nella zona del monte Somma, che va da Boscoreale a Torre del Greco.

Ai piedi del complesso vulcanico napoletano, sono sorte enormi città con una storia antica, sistemate nel lato più oscuro del Vesuvio, quello che si riflette solo per un breve tratto nell'immagine iconografica del golfo di Napoli. In questo territorio, ad alta densità abitativa, la fertilità del suolo, dopo i disastri delle eruzioni passate, ha fatto il miracolo.

La dolcezza, le qualità organolettiche, la specializzazione dei prodotti agroalimentari vesuviani stanno conquistando l’attenzione di migliaia di buongustai in tutto il mondo. Innegabilmente si sta prepotentemente affermando l’era del pomodorino del Piennolo, proposto al pubblico con dei frutti a botticella di colore rosso vermiglio, organizzati in una struttura geometrica a pendolo. In pratica, il genio dei contadini e delle massaie ha creato nel corso degli anni questa struttura ad U, con frutti sovrapposti e tenuti insieme da un filo di canapa dal peso minimo di 1,5 chilogrammi. Le confezioni di pomodorini, perfettamente bilanciate, vengono attaccate ai balconi o nei luoghi ventilati per favorire la conservazione per lunghi periodi. La consistenza coriacea dei frutti, la presenza di zuccheri e di vitamine ed un particolare retrogusto acidulo, rendono il prodotto veramente speciale. Infatti, nella caratteristica composizione, di cui si ha traccia anche nei presepi napoletani dell'Ottocento, i pomodorini perdono l'acqua, conservano la polpa e rimangono freschi quasi per un anno intero. Questa specialità viene coltivata in 17 città vesuviane. La produzione è regolata da un consorzio di tutela che applica un rigido disciplinare. Al consorzio aderiscono 42 aziende che producono circa 1000 quintali di frutti ogni anno. "Per la sua qualità – afferma Cristina Leardi, presidente del consorzio di tutela del pomodorino del Piennolo – almeno il 60 per cento del nostro prodotto viene venduto all'estero. I francesi, gli americani, i belgi, i polacchi e molte altre popolazioni del mondo ne vanno pazzi”.

Un altro prodigio della frutticoltura, sempre sul lato oscuro del Vesuvio, s’annovera nel campo della produzione di albicocche. Nei trattati di agricoltura a partire dal Sedicesimo secolo si parla della presenza di almeno 100 varietà di albicocche, dalla caratteristica colorazione gialla. Nel corso dei secoli i contadini hanno selezionato i cultivar, mettendo in produzione quelli che assicuravano maggiori rese, migliore qualità e il gusto più apprezzato dai consumatori. Attualmente ci sono almeno 16 cultivar di albicocche con nomi fantasiosi, derivati dalla zona di produzione, dalle caratteristiche del frutto o dal nome dei contadini che li hanno selezionati.

Tra le varietà più note, riconosciute e apprezzate sui mercati nazionali conquista sempre maggiori posizioni l'albicocca 'Pellecchiella', così chiamata per la consistenza coriacea della buccia. Questo frutto, coltivato in terreni vulcanici sabbiosi a campo asciutto ricchi di potassio e fosforo, contiene zuccheri, vitamine, carotenoidi e numerose sostanze minerali. Il sapore è unico. Questo tipo di albicocca viene utilizzata per il consumo fresco oppure per produrre nettari, marmellate e canditi. Negli ultimi tempi i pasticcieri stanno facendo fortuna con i classici panettoni e dolci con marmellate di Pellecchiella. Un famoso pizzaiolo casertano ha anche lanciato la pizza alla Pellecchiella ed il successo è stato esplosivo. Nella zona del parco del Vesuvio si producono alcune migliaia di quintali di albicocche, ma a causa dell’incalzare del cemento e dell’abbandono dei terreni agricoli da parte dei contadini, rispetto a qualche anno fa, la produzione si è notevolmente ridotta.

L'ultimo nato in campo enologico, che si aggiunge al Greco e altri vini di vitigni tipici campani, è il vino Catalanesca, prodotto anch’esso per un atto di amore. Si racconta che Alfonso d’Aragona abbia regalato alla sua amata Lucrezia D'Alagno un tralcio di vite della Catalogna, dalle caratteristiche eccezionali. In un primo tempo, le viti, nate rigogliose nel territorio vesuviano, producevano ottime uve da tavola di colore giallo bruno che si conservavano fino a Natale. I contadini, già nelle epoche antiche, vinificavano questa uva per il consumo personale. Adesso, grazie ad enologi di fama internazionale, a esperti dell'università di Portici, ad illuminati produttori e ad associazioni come l’ARCI, con test di vinificazione, si è riusciti a far iscrivere nel 2006 la Catalanesca nel novero delle uve da vino. Nel 2011 è nata anche la denominazione vino Catalanesca Indicazione geografica tipica ed è stato istituito il consorzio di tutela, che raggruppa le aree coltivate a vite di 9 comuni vesuviani. Per il momento si producono circa 200 mila bottiglie di vino Catalanesca, che vanno a ruba sul mercato locale e nazionale, per il loro caratteristico bouquet con sentori di albicocche e miele.

Nella valle vesuviana stanno facendo proseliti i ristoranti che propongono menù a base di stoccafisso e baccalà, prodotti storici di questo territorio. Questa, però, è tutta un'altra storia da raccontare.