di Alfredo Luís Somoza

 

Il fantasma dell’inflazione torna a riaffacciarsi sull’Occidente. Per quest’anno in Europa si prevede un tasso del 5%, il più alto dalla nascita dell’euro, mentre negli USA si dovrebbe toccare il 7%, la percentuale più alta dal 1982. Non è un fenomeno nuovo, anzi: la prima grande ondata di inflazione colpì l’Europa alla fine del ’500 quando l’aumento della popolazione e l’arrivo di ingentissime quantità di oro e argento (depredate dal continente americano dagli spagnoli) fecero salire i prezzi dei beni.

Un grande studioso di questi fenomeni fu il premio Nobel John Maynard Keynes, che sottolineò come l’inflazione incida sulla distribuzione della ricchezza concentrando i profitti sul capitale, mentre i salari vengono erosi nel loro valore reale. E, a leggere i dati di questi giorni, si ha conferma dell’esattezza delle teorie che Keynes formulò ai primi del Novecento. Nei primi due anni di pandemia i dieci uomini più ricchi del mondo hanno più che raddoppiato i loro patrimoni, passati da 700 a 1.500 miliardi di dollari; nello stesso periodo 163 milioni di persone sono cadute in povertà. Questi i dati del dossier sulle disuguaglianze in pandemia pubblicato da Oxfam all’apertura del Forum di Davos 2022. 

Il ritorno dell’inflazione in Occidente – altrove l’inflazione non era mai scomparsa – è dovuto anche all’emergenza sanitaria e alla politica “Covid zero” attuata dalla Cina. Il grande Paese asiatico si trova a monte praticamente di tutti i processi industriali al mondo, in qualità di fornitore. Al suo interno ha una geografia produttiva caratterizzata da distretti specializzati. Ci sono città che fabbricano semiconduttori, altre specializzate nelle plastiche, altre ancora nelle batterie oppure negli smartphone. La politica del governo cinese per sradicare il Covid è quella di procedere alla chiusura di ogni attività nell’intero distretto urbano, incluse le fabbriche, al verificarsi dei primi casi di positività.

È la stessa politica che hanno adottato anche Nuova Zelanda, Australia e Singapore, abbandonandola però all’arrivo dei vaccini. In Cina recentemente sono bastate tre positività a Yuzhou, città di oltre un milione di abitanti, per dichiarare un lockdown “duro”. Ogni città ferma significa un distretto produttivo fermo, e di conseguenza un prodotto che rischia di scarseggiare. Si è formato così un gigantesco collo di bottiglia: la mancanza di rifornimenti dalla Cina sta colpendo diversi settori produttivi nel mondo, con un conseguente aumento dei prezzi di quei prodotti che via via scarseggiano sul mercato. Si aggiunge l’aumento dei costi dell’energia e, di conseguenza, anche della logistica: e l’uscita dalla crisi economica si allontana. Quest’anno la Cina dovrebbe crescere del 4,3%, un ritmo non sufficiente a trainare la crescita globale in modo significativo.

Per superare i colli di bottiglia dell’economia, oggi più che mai servirebbe una cooperazione rafforzata tra gli Stati. Non vi è dubbio, infatti, che questa ondata inflazionaria ha carattere globale: un’ulteriore dimostrazione della forte interdipendenza dell’economia-mondo attuale, nonostante siano in aumento le tensioni internazionali, anche belliche. Ciò che resta una costante, dai tempi di Carlo V a quelli di Keynes, è che quando le cose vanno male c’è sempre qualcuno che ci guadagna: e sono sempre gli stessi.