di David Tozzo

Un Parlamento che non sa fare il presidente è una panetteria che non sa fare il pane. Una regola derogata una volta è come cancellata, due volte è come calpestata.

Nel 2013, il primo Parlamento di una qual certa Terza Repubblica dove aveva fatto irruzione il MoVimento 5 Stelle, mandando in soffitta il bipolarismo della seconda, non riuscendo per trame di palazzo e piccineria ad eleggere un presidente, andò in penosa processione dall’allora presidente uscente, Giorgio Napolitano, per supplicarlo di non uscire. Napolitano, già in là con anni e affanni, accettò con un discorso in cui fustigò senza pietà i grandi elettori che non solo s’erano fatti piccoli piccoli, ma più Napolitano li redarguiva con parole ben forti, più applaudivano, in stato di trance mistica come neanche il beato Jacopone da Todi dell’auto-flagellazione.

Meno di nove anni dopo cambiano un po’ di attori ma il copione è lo stesso, e viene disattesa la predetta regola non scritta di un mandato che i padri costituenti avevano previsto  sufficientemente lungo – 7 anni – da non dover essere rinnovato proprio per non scivolare verso una monarchia, sistema che all’atto di redigere la Costituzione era stato appena abbandonato tramite referendum istituzionale. È stato rieletto Mattarella, tra i migliori Capi dello Stato mai avuti in Italia, che tuttavia aveva enunciato a chiare lettere – e prima di lui i predecessori Ciampi e Leone – l’inopportunità di un mandato lungo 14 anni, che nel caso di Mattarella attraverserà ben 4 legislature repubblicane (e a metà del guado siamo già a 4 governi).

Sarebbe però miope gettare la croce addosso al Parlamento in quanto tale o alla sua tri polarizzazione o frammentazione: da sempre, tutte le elezioni hanno previsto il raggiungimento di accordi tra partiti distinti e distanti, a volta distantissimi. Nel 1962 (elezione di Segni) come nel ’71 (elezione di Leone) furono determinanti addirittura i voti del Movimento Sociale Italiano.

La colpa, o quantomeno la responsabilità (l’incapacità per lor fortuna non è un reato), è tutta da ascrivere ai leader dei principali partiti. Innanzitutto Matteo Salvini, autoproclamato kingmaker con il poco comprensibile e ancor meno giustificabile beneplacito e mandato pieno e supino di tutto il centro-destra, ma anche e peggio, in definitiva, Giorgia Meloni, che se galleggia ormai da un anno attorno alle stesse percentuali di Lega e Pd è proprio perché avviluppata in un rapporto gelatinoso che pare inossidabile, indissolubile con la maggioranza, incluso un rapporto persino amicale nella dialettica con Draghi, non viene riconosciuta, dalla pancia del Paese, come opposizione di pancia e di lotta, opposizione vera, cosa che la porterebbe agilmente a staccare i due menzionati partiti.

Con l’accordo per la permanenza di Mattarella al Quirinale e Draghi a Chigi, Meloni ha dapprima fatto una delle battute migliori del romanzo Quirinale: «Manco il Gattopardo, siamo al: “nulla cambi, perché nulla cambi”», poi 1 minuto dopo ha sparato a zero con inaudita asprezza politica: «il centrodestra è in coma»; 2 minuti dopo il miracolo immediato e la risuscitazione «ricostruiamo il centrodestra». L’impressione è che da domani, esattamente come ieri, Fratelli d’Italia sceglierà di non scegliere, da grande, di fare la grande davvero, di fare l’opposizione vera.

Chi in Parlamento grande sulla carta lo era erano i pentastellati, da primo partito parlamentare (con quasi il doppio dei voti sul secondo) avevano l’obbligo dei numeri di guidare la partita, peraltro anche agevolati dell’aver governato con destra e sinistra, ed essere ab origine alternativi all’una e all’altra. Playmaker, oltreché kingmaker, del tutto naturali. Conte non è invece granché pervenuto, restando più in panchina che giocando anche solo di rimessa, ma ha una duplice attenuante generica dirimente: sin dalla sua elezione a Presidente del MoVimento 5 Stelle ha dovuto fare i conti con da un lato Beppe Grillo dall’altro Luigi Di Maio a fargli la guerra. Letta non pervenuto, non ha proposto nessuno in oltre 8000 voti di 1009 elettori lungo 8 chiame, e sostenere che ha vinto è come dire che alla partita di calcetto ha vinto un certo Enrico anche se quella sera al campetto non si è proprio presentato.

L’unico punto che i leader dei maggiori partiti sono stati in grado di tenere fermo, forte e chiaro è stato il matto e disperatissimo, insopportabile esercizio apocrifo fatto fin da prima della prima chiama per ancorare artificiosamente i destini della più alta carica istituzionale, il garante dell'unità nazionale, a un governicchio o governone (che poi fa un po’ lo stesso) guazzabuglio che bene (?) che vada durerà altri 4-5 mesi, dopodiché saremo comunque in piena campagna elettorale. Perché per fortuna che anche i mandati delle camere durino 14 anni, o che possano rieleggere se stesse, non è ancora regola scritta. Bisognerà fare il pane, bisognerà fare politica.