Di Pietro Gargano*

All'antivigilia di Natale del 2020 avvertii come un pugno alla schiena, leggero ma incessante. Pensai a un banale dolore intercostale e me lo tenni addosso per tre giorni. Finalmente mi decisi a chiamare il medico. Venne e l'elettrocardiogramma rivelò un infarto in corso. Mi affidai a San Ciro Medico no- stro. Corsa in ambulanza, ricovero alla Clinica Mediterranea, angioplastica d'urgenza nella notte, una settimana in rianimazione, un'altra in reparto e tornai a casa. D'istinto, mi misi subito a ritoccare gli appunti di lavoro che, da porticese purosangue, da tempo dedicavo a San Ciro. A fine agosto del 2021 nuovo pugno dalle parti del cuore. I sudori freddi mi spinsero a chiamare il 118. Altro ricorso a San Ciro, altra ambulanza, corsa al Cardarelli, altra angioplastica, sette giorni in terapia intensiva, sette in reparto. M'hanno "spilato" i tappi, tranne un trombo cocciuto. Sto in terapia per scioglierlo, per fortuna s'è indurito e dovrebbe essere meno pericoloso. Ho rimesso mano al lavoro su San Ciro, dedicandogli l'unica cosa che so fare: scrivere. Vita, martirio, miracoli, luoghi di culto, leggende. Ed ecco il libro. Lo considero un ex-voto speciale, da mettere accanto ai pezzi di anatomia in argento e ai quadretti naif offerti da devoti grati al Santo che ha protetto non solo Portici nell'ultima pandemia. 

Un eremita nel deserto

Il più odioso assassino di cristiani, nato a Salona il 22 dicembre 244, in principio si chiamava Diocle, figlio di un liberto. Cresciuto nella provincia romana della Dalmazia, capì che solo l'esercito poteva consentirgli la scalata sociale e fu valoroso combattente, fino a diventare comandante di cavalleria sotto Marco Aurelio Caro. Partecipò alla spedizione contro i Sassanidi, in cui Caro trovò misteriosa morte. Perse la vita anche Numeriano, figlio e successore di Caro. Così a quarant'anni Diocle fu proclamato imperatore dai generali e dai tribuni, nel tripudio dei soldati. Era diventato Cesare Gaio Aurelio Valerio Diocleziano Augusto Iovio. 

Mise fine all'anarchia militare con molte riforme, frazionò il potere assegnando nel 286 a Massiminiano la metà occidentale dell'impero e tenendo per sé quella d'Oriente. Più tardi stabilì una tetrarchia. Conservatore nell'indole, all'inizio non vide nel Cristianesimo un pericolo e fu piuttosto tollerante. I cristiani d'oltremare erano oramai centinaia di migliaia e disponevano di 1.800 sedi episcopali. Si diceva che perfino la moglie dell'imperatore, Prisca, e la figlia Valeria tenessero per i cristiani. Pur tra mille pene e infinite precauzioni, pur sottoposta a soprusi, la fede continuava a crescere, in un tempo in cui - dice Bossuet - per la maggioranza del popolo "tutto era Dio, tranne Dio medesimo". L'ostilità dei politeisti verso quella che reputavano una nuova oscura setta tuttavia montava in modo impetuoso, trovando fertile terreno nella cattiveria del tetrarca Galerio, che spinse Diocleziano verso la repressione. 

La prima fase scattò nel giugno del 296 e come sempre l'interesse politico ebbe il sopravvento sulla devozione. Ad armare la longa manus di Roma in Egitto furono in realtà i disordini e le rivolte causati dalla crescente influenza dei sanitari, tra i quali si erano infiltrati stregoni e guaritori. Appena domata, dopo dieci mesi di disordini, la ribellione di Achilleo VIII, i Romani emanarono severe pene contro i ciarlatani. Oltre ai libri di magia furono distrutti testi di farmacologia. Trattati di scienza clinica in pergamene vennero bruciati. fra le accuse fu infilata quella di cospirazione contro lo Stato. Bisognava colpire chiunque operasse al di fuori del potere. E Ciro non aveva altro potere che quello della fede e della scienza. Tuttavia, moltiplicando le precauzioni senza venir meno alla propria missione, per qualche tempo riuscì a restare libero. 

Fu un episodio sospeso fra superstizione e furbizia a far da prologo alla fase più crudele della persecuzione. Nel 299 Diocle- ziano promosse una solenne cerimonia ad Antiochia di Siria. Venne il turno degli aruspici e quegli indovini non riuscirono a trovare i segni del futuro nelle viscere degli animali sacrificati. "E' tutta colpa loro" dissero indicando i cristiani. Cominciò così e fu sempre più feroce. Ad Alessandria il Prefetto Siria- non fu fedele esecutore della volontà imperiale. Nella caccia ai guaritori individuò un avversario da stroncare in quell'uomo che sanava pregando. Ordinò agli armigeri di portarlo al suo cospetto. La voce dei vicoli, un tam tam di riconoscente solidarietà, lo informò della minaccia. Fu una delle guardie a far passare la voce. Cirò fuggì. 

Sofronio citò il Vangelo per spiegare la scelta del profugo: "Non fuggì per timore, ma per uniformarsi alla parola di Cristo che dice 'allorché siete perseguitati in una città, rifugiatevi in un'altra". Un altro agiografo, il canonico Gaspare Cinque - vicario curato dell'abbazia di Sant'Antonio abate a Napoli - attribuisce la partenza di Ciro a tre motivi: la grande corruzione di Alessandria; la persecuzione contro i medici; l'ansia di perfezione, per prepararsi alla "lotta suprema e al supremo trionfo". In realtà, la scelta non ha bisogno di giustificazioni, perché corrispondeva alle leggi della prudenza dei cristiani di frontiera. Se il martirio era la testimonianza suprema, la sopravvivenza restava necessaria per dare ai fratelli sempre più numerosi il testimone del Verbo. 

Pietro l'Alessandrino, vescovo, dispose pene durissime per i chierici che, spinti dallo zelo, avessero imboccato spontaneamente la pista del martirio. La misura valeva specie per i capi cristiani - e tale era Ciro per fama, nonostante fosse laico - che dovevano mettere al riparo la loro autorità. Fuggirono così San Cipriano vescovo di Cartagine, San Biagio vescovo di Sebaste, San Gregorio Armeno, lo stesso Pietro Alessandrino. 

A orientare le scelte di Ciro fu pure l'insegnamento di Origene, figura-chiave della parabola del nostro santo. Nato nel 185 ad Alessandria, morto nel 253 per le torture subite sotto la persecuzione di Decio, Origene fondò la scuola teologica del Didaskaleion. Indicò le tappe del cammino di un perfetto cristia- no, corrispondenti alla via di Ciro: la conoscenza, la fuga dal caos e dalle debolezze, la lotta contro il demonio, la conquista della virtù fortificata attraverso le battaglie interiori. Ogni prova superata, diceva Origene, è un balsamo per l'anima. 

Lungo la strada della solitudine e dell'esilio, Ciro cercò riparo in Arabia Petrea, nella oasi di Ceutzo a est del fiume Nilo, per condurre una vita da eremita. Lì, all'estrema frontiera del potere romano, operava una piccola comunità di monaci che occupavano anfratti, capanne traballanti e lacere tende. I metodi mutarono: Ciro divenne operatore di miracoli. Difficile individuare i luoghi in cui trovò ostello. Il deserto prendeva nome dalla rossa città di Petra, oggi in Giordania, e comprendeva la penisola del Sinai e l'attuale territorio di Israele. Qualcuno ha scritto che Ciro si spinse fino all'odierno Marocco settentrionale. Si sarebbe sistemato in un posto isolato rispetto alle vie di traffico e al castello fortificato eretto dai Romani. Il mare, al di là delle dune, era un distante luccichio. 

Non è da escludersi, tuttavia, che l'oasi fosse crocevia di viandanti e carovane, per cui potevano arrivare notizie dalle città e, di riflesso, nelle città si sapeva quanto accadeva nel deserto. Secondo la tradizione, infatti, da Ciro arrivò un soldato di Roma che aveva gettato le armi, il cinturone e le insegne per impugnare la croce. Il giovane e nobile Giovanni, nato a Edessa - oggi Urfa - in Mesopotamia, ebbe notizia a Gerusalemme, dove era in pellegrinaggio, della presenza nel deserto di un uomo che trasformava la medicina in un miracolo. Aveva scoperto tutto l'orrore della guerra. Lasciata la legione, era diventato cristiano. Viaggiava di continuo, avendone i mezzi, per sfuggire all'editto di epurazione dei soldati cristiani emanato nel 298 da Diocleziano. Si mise in marcia e raggiunse Ciro, offrendosi come suo discepolo. Cominciarono quattro anni di devozione e di amicizia, di fatica e di preghiere condivise. Al- tri giovani arrivarono. 

Fu lunga la fuga di Ciro dal caos e dalle miserie umane. Tutte le notizie sul santo sono scarne. Non è chiaro nemmeno quanti anni visse. Ma è logico, dai racconti, desumere che il distacco da Alessandria avvenne quattro anni prima dell'editto di persecuzione del 303. Ciro si mise alla prova. Calpestò la sabbia ardente e le pietre a piedi scalzi, si tagliò i capelli a zero, cinse la povera veste con una fune. Diventò monaco, abate. E molti lo chiamarono Aabb Ciro, da abbas che in copto significa padre. Con un rozzo saio, con un cordone, lo ha poi raffigurato la devozione popolare. I Padri del deserto all'inizio non indossavano un vero saio, giacchè erano andati spogli e tra le sabbie non potevano procurarsi la stoffa. Vissero seminudi. Alcuni dissero, forse esagerando, ch'erano vestiti solo dei lunghi capelli. La spoliazione era la caratteristica distintiva dell'anacoreta. Disse Giovanni, togliendosi gli stracci che a malapena lo coprivano:"Se l'uomo non si spoglia così dell'onore, non può diventare monaco". Ciro, che fu tra i primi, forse indossò un'umile tunica (Cristo comandò ai suoi apostoli di possederne una, e solo una) o una veste ricavata da foglie di palme intrecciate; forse nelle gelide notti del deserto addolcì il freddo con pelli di cammello. L'abito speciale, con la cintura e lo scapolare, probabilmente bianco, era già arrivato, ma riservato a pochissimi eletti delle comunità. 

Non a caso la parola monaco all'origine significava solo eremita. Pure in questo Ciro fu un pioniere. Prima di Sant'Antonio abate e di San Basilio, di San Cirillo e di San Paolo l'Eremita, avviò la storia del monachesimo solitario in Oriente. Non fu immobilità di vita, ma ricerca dell'energia dello spirito. Nella desolazione, soprattutto pregò. Recitò orazioni e salmi contandoli con l'aiuto di sassolini o di bacche radunate lungo un filo. Da quest'uso deriva forse l'immagine del rosario pendente dal cordone del saio in molte raffigurazioni. E' un affettuoso ma evidente anacronismo: il rosario nacque solo nel XII secolo, per fedeli smemorati che, snocciolando i grani, erano certi di non aver dimenticato nessuna delle preghiere. 

L'eremita Ciro non restò solo a lungo. La notizia della sua presenza si diffuse, forse sparsa da viandanti che avevano portato per caso i loro passi nel nudo rifugio del Medico, e ne erano usciti ritemprati. E' probabile che Ciro abbia messo a frutto la facilità nei rapporti umani della sua stirpe. E' evidente che la scelta di privazioni tanto dure in un ambiente ostile, prima ancora che da un'esigenza di contemplazione divina, nasceva dalla volontà di imitare Dio crocifisso. 

Secondo Sofronio, quando divenne anacoreta Ciro aveva già abbandonato le boccette dei farmaci e usava solo la Parola, distribuendo miracoli. Era il rispetto della volontà suprema, in un uomo nato tra uomini che furono i più religiosi di tutti i popoli e di tutti i tempi. 

Fine Terza puntata