Di Fulvio Abbate

Nessuno tocchi Di Maio poiché ognuno di noi apprende il proprio mestiere ora e sempre passo dopo passo, sì, non stupisca, anche sbagliando, cioè empiricamente, per approssimazione, ed è questa una legge di natura onnicomprensiva che si affianca, s’intende, alla fatica dello studio, dell’apprendimento stesso.
Forse, mi ripeto, nessuno di noi, se solo in questo momento si trovasse a fronteggiare la scrivania della Farnesina, le insegne di ministro degli Affari Esteri idealmente sulla linea puntinata della carta d’identità professionale, probabilmente saprebbe fare di meglio. Riuscirebbe comunque approssimarsi ai gesti e alle parole più esatte, più opportune per rispondere a un evento tragico e irricevibile in nome del comune sentire etico come una guerra di aggressione apparsa all’improvviso come una scintilla ingovernabile.
Nessuno tocchi Di Maio poiché non si può dire che il paesaggio complessivo qualitativo del ceto politico che abbiamo intorno mostri altrove figure particolarmente brillanti. Pezzi unici in grado d’essere ritenuti stelle polari per editto immediato o per magica trasmissione genetica, famigliare.
Altrettanto irricevibile la modalità derisoria quasi di massa, che, affidandosi alla subcultura ormai pervasiva dei social, lì porta perfino a surclassare perfino il lavoro complesso degli analisti laureati, attraverso, metti, la colonnina (spesso) infame dei cosiddetti “meme” ne fa un bersaglio privilegiato, con punte di crudeltà qualunquistica del più “plebeo” bar sport. Mi riferisco, esempio recente, a un’immagine (lo scatto ritrae Putin proprio durante un incontro proprio con Di Maio) dove, a fronte di una frase in cirillico pronunciata dal presidente russo, il nostro ministro degli Esteri sorride, gli stringe la mano rispondendo: “Hakuna matata”. La frase tratta dal cartone animato del “Re leone”, traducibile in “senza pensieri”. Sebbene davvero irresistibile dal punto di vista comico, quel “meme”, ripeto, è del tutto simmetrico all’immenso bacino dell’analfabetismo qualunquistico di molta subcultura nazionale, la stessa che, va detto, nel tempo purtroppo lo stesso movimento di Luigi Di Maio ha contribuito a propagare e legittimare. E tuttavia, per quanto possa sembrare paradossale e ad alcuni addirittura incomprensibile, il Movimento 5 Stelle, sia pure nella sua improbabilità, nelle sue centomila contraddizioni, dall’assurdo complottismo da albo “Urania" di Casaleggio Senior al cesarismo da avanspettacolo post-petroliniano di Beppe Grillo, ha avuto comunque il merito di consentire a chi non avrebbe mai avuto accesso al “Palazzo” un’esperienza che di solito è ammessa quasi unicamente ai cooptati, ai “figli di papà”, agli aventi diritto per ragioni dinastiche da corridoio. E questa evidenza, lo si voglia o no, è una prova di democrazia, al netto dei già citati molti limiti imperdonabili dell’avventura pentastellata in corso d’opera. Riflettendo ancora sui necessari strumenti culturali di cui occorre essere in possesso per affrontare degnamente il lavoro politico istituzionale, pensando ancora a Di Maio, nessuno di noi tuttavia, filosoficamente parlando, può immaginare la realtà immutabile, rifiutando di credere che le persone, gli individui possano mutare, donando infine a se stessi strumenti di comprensione del reale. In una semplice parola: crescere. Conquistando consapevolezza della necessità degli strumenti che inizialmente non possedevano. Esistono le leggi del mutamento. Il sociologo Domenico de Masi, anni fa, propose addirittura a Luigi Di Maio di andare alla London School of Economics per darsi gli strumenti forti necessari al suo lavoro di politico. Irrilevante, che il ragazzo non abbia seguito il consiglio e perfino che nel tempo sia riuscito a commettere numerosi errori, ora per candore demagogico ora per limiti oggettivi, cominciando dall’affacciarsi dal “balconcino” di Palazzo Chigi proclamando “la fine della povertà”. La terra della politica non è immobile, e tutti noi abbiamo il dovere di credere, a maggior ragione in un momento di ridefinizione dei suoi schemi tutti, che perfino il diretto interessato possa perfino ricredersi su se stesso, su un qualcosa che giustamente altri, fin da subito, avevano ritenuto risibile. In battaglia, quando vengono decimati i generali, i colonnelli, e perfino i maggiori, i capitani e l’ultimo dei sottotenenti giace al suolo, il comando passa al soldato con la maggiore anzianità. Quanti di noi in questo momento potrebbero dire con assoluta sicumera di poter far di meglio di Luigi Di Maio senza peccare di narcisismo?