di Almerico di Meglio

La follia di un comico ha cambiato la storia. Così un giorno gli storiografi potrebbero titolare il capitolo di questa guerra assurda che distrugge le cose, i corpi e le speranze di una generazione dell’Ucraina assieme ad alcune illusioni dell’Europa e forse dell’Occidente. Questa guerra insensata, inutile, riporta indietro di trentatré anni le lancette, a quel 1989 che doveva inaugurare un futuro di pace. Ci si illudeva che la Storia, quella che eravamo abituati a vivere, fosse “finita insieme all’Urss”, che a suggellare il Novecento fosse la profezia di Francis Fukuyama. Ma essa perde i colori e sfuma nella foschia, dove pare scorgere - seppur vaga, indistinta, ancora informe - la profezia che il Novecento inaugurò, quella di Oswald Spengler, del “tramonto dell’Occidente”. La Storia ricomincia? No, non s’è mai fermata. Il fiume prende forza nei salti che seguono le finte pause dell’ansa e della pianura. E nel cielo d’Europa il filo d’orizzonte di quel tramonto d’inizio secolo scorso s’annoda a questo. Forse… Eppure, un filo di speranza riaffiora se dal coraggio di un popolo che non s’arrende e sfida la morsa che l’assedia, lo stringe, lo strangola nascerà quel coraggio che al resto dell’Europa è finora mancato per costringere l’America a stemperare l’arroganza - perché non impara la lezione delle sue guerre vinte a metà o perdute - e la Russia alla convivenza pacifica tra europei. Chissà… Georgy Arbatov , ch’era stato consulente di ben cinque segretari del PCUS - da Nikita Krusciov a Mikhail Gorbaciov - e “pontiere” tra Cremlino e Casa Bianca nei momenti più gravi, si limitò a un acido commento: ”Abbiamo fatto all’Occidente il regalo peggiore: eliminargli il nemico”. Me lo ribadì due anni dopo, nell’autunno del 1993, con la mestizia dello sconfitto, sotto le mura del parlamento russo, il colonnello Viktor Alksnis, mentre veniva soppressa l’insurrezione contro Boris Eltsin, cui aveva partecipato non da nostalgico comunista (n’erano rimasti pochi già da tempo) ma da patriota, da nazionalista, come tutti o quasi i russi. Aggiunse, però, un mònito: ”L’equilibrio del mondo s’è frantumato e tutti ne patiranno le conseguenze”. Ho spesso pensato a loro in queste ultime settimane. Gli Stati Uniti sono stati così convinti d’aver perso il nemico da voler ricreare il pericolo della Russia, portare la Nato sotto casa e ritirarsi dal trattato Inf per tenersi stretti gli alleati e armarli finalmente a loro spese, e occuparsi del Pacifico. Hanno umiliato l’ex “altra superpotenza” del mondo che, se non nel PIL e nel collante dell’ideologia, superpotenza nelle armi nucleari resta. Che regalo alla Cina! E ora Pechino, che punta a raccoglierne l’eredità del ruolo (col suo PIL dieci volte superiore e colle sue armi sul mare e in cielo che senza dar troppo nell’occhio adegua alle ambizioni neo-imperiali) si compiace di porsi come la grande mediatrice. E guarda agli spazi vuoti ma ricchissimi della Siberia e del Grande Nord, l’ultima cantina del pianeta da saccheggiare. Spazi vuoti che la denatalità russa esalta. La guerra, incubo delle mamme russe con figli unici al fronte. La denatalità, il vero incubo di Vladimir Putin. Con colpevole ritardo i più seguiti mass media - e i più ostinati nel tacere o sottovalutare i motivi che hanno spinto Mosca all’invasione dell’Ucraina - hanno scoperto l’avvertimento di Henry Kissinger, del 2014, a non portare la NATO nella terra dei Rus’ di Kiev, ai confini dell’impero dei Rus’ di Mosca, per non svegliare l' orso dormiente. Ma George Kennan - il gigante della strategia globale che teorizzò il “contenimento” antisovietico - già nel 1997 aveva lanciato questo mònito che invano avrebbero riecheggiato Kissinger e non pochi altri. Erano gli anni seguenti al crollo dell’Urss e l’Occidente era troppo intento a festeggiare e a studiare come spartirsi le spoglie, per accorgersi che sopraggiungeva, a lunghe falcate, il caos. In Russia i pilastri dell’economia statalizzata e scheletrizzata venivano rimodellati con schiere di costosi consulenti occidentali mentre la popolazione era intimorita, disorientata, impoverita e, tuttavia, ingenuamente e teneramente innamorata di una democrazia che pareva bussare impetuosa alle porte, portando in dote libertà e gioia di vivere. Una Russia tra lamenti e l’angoscia per i confini interni, federali, che scricchiolavano in Cecenia, ma aggrappata alla speranza. Inalbera sempre vessilli di pace la Nato che - con o senza le benedizioni dell’Onu - bombarda la “cugina” Serbia, poi l’Afghanistan, poi l’Iraq, poi Tripoli, mentre fa scivolare sottobanco armi verso Paesi amici o nemici dei suoi nemici, e semina centinaia di migliaia di vittime “collaterali”. La Nato che assorbe gli ex alleati del Patto di Varsavia e finanche le repubbliche baltiche dell’ex Urss mentre Washington invia consulenti militari e la Cia in Georgia, poi in Ucraina dove, alla defenestrazione del presidente democraticamente eletto, s’aggiunge infine lo spettro dell’adesione alla Nato. E l’“orso” si risveglia... Ecco, il nemico ritrovato! L’armata di Putin, a dispetto di errori e calcoli forse sbagliati, non molla la presa. Ricorda per certi versi gli antichi assedi alle città che terminavano con la fame o la peste tra gli assediati o tra gli assedianti. Dal bunker dove è rifugiato rimbalzano i proclami di Zelensky a resistere, fino a maggio, quando l’armata di Putin si sgretolerebbe sciogliendosi nel pianto delle mamme russe per i figli caduti nella guerra civile tra i Rus’. I “ruggiti del topo” (rubo al maestro Indro Montanelli). Oggi Zelensky parla in video al Congresso Usa. Raccoglierà applausi scroscianti e nuove forniture d’armi. Ma gli applausi non a lui dovrebbero esser rivolti bensì solo ai suoi concittadini, a un popolo intero che ha mostrato all’Europa occidentale l’ardire e la determinazione di chi ha visto spezzare le catene che imprigionavano appena trent’anni fa, non nel 1945. E quasi fosse nel teatrante ruolo dell’eroe, su un palcoscenico di provincia, Zelensky mentre incita alla resistenza, col “ruggito del topo” (rubo al maestro Indro Montanelli), contemporaneamente vuole un faccia a faccia con Putin, lasciando così intendere ch’è ora disposto anche a discutere sulla neutralità - quale che sia il nome con cui ribattere per convenienza diplomatica - dell’Ucraina. E vorrei potergli chiedere: perché non prima?