di Alfredo De Girolamo

 

La guerra, insieme alla lunga scia di violenza e dolore, si porta dietro anche il problema dei rifiuti. Milioni di sfollati, montagne di macerie e il dilemma della gestione, impossibile, di ciò che usualmente buttiamo. Nemmeno il lungo lockdown a causa del Covid-19 ha infatti fermato il lavoro degli operatori ecologici di mezzo mondo, ma, missili, cecchini e carri armati sono un'altra cosa rispetto al virus.

Già di per sé quello della raccolta e smaltimento dei nostri scarti può essere un asfissiante assillo, in Italia ne sappiamo qualcosa. In tempo di guerra tutto esponenzialmente peggiora, facendo esplodere (in questo caso letteralmente) le criticità, portando caos e disorganizzazione. Qualcuno probabilmente dissentirà su questo punto, affermando che in piena drammatica emergenza umanitaria il primo dei nostri pensieri dovrebbe essere indirizzato ad altro. Purtroppo, la realtà della tragedia a cui stiamo assistendo inorriditi, ci invita a non tralasciare aspetti quotidiani che invece spesso minimizziamo, incautamente. Il livello dei servizi al cittadino rappresenta il grado di sviluppo di una società moderna. Maggiore è l'attenzione, e gli sforzi, che riponiamo nelle politiche ambientali e migliori sono i risultati che otteniamo, a partire dal piano della difesa della salute pubblica.

Se le città, dopo le bombe, si trasformano in discariche a cielo aperto, il rischio igienico è alto. Dalla storia dei recenti conflitti in Medioriente abbiamo imparato che una volta saltata la catena della raccolta, talvolta esistente in forma primordiale ed altre assente o abbozzata, il fai da te segue una semplice, banale e comune consuetudine, bruciare i rifiuti. Un atteggiamento criminale, come gettarli in discariche abusive o “eliminarli” nei corsi d'acqua. Possiamo ovviamente comprendere con che ritorno, e con quali effetti a breve e lungo termine sulle persone. Non possiamo non prescindere dal fatto che le guerre hanno quindi la loro bella parte di colpa nel contribuire al disastro ambientale. Per questo non è una forzatura dire che pacifismo e ambientalismo se non sono sinonimi sono tuttavia intrecciati. Ma se il pacifismo può contare sulla solidarietà ciò non avviene quasi mai per l'ambientalismo. Anzi, può succedere, ed è successo, che il sostegno a chi soffre produca, involontariamente, un danno ecologico.

Gli aiuti si dividono in due categorie, quelli che realmente servono e quelli che sono inutilizzabili. I secondi a loro volta possono essere catalogati in nocivi (medicinale scaduto) e superflui. A riguardo descrive bene quello che sta succedendo un recente articolo del tabloid britannico the Sun, War on waste (Guerra ai rifiuti) di Jon Rogers. Colpisce leggendo l’articolo la quantità di prodotti donati all'Ucraina che non possono essere inviati e finiscono nel processo di riciclo. A Castlepoint nel Dorset, in meno di una settimana il locale centro di smistamento ha dovuto eliminare 4,5 tonnellate di donazioni. A Londra, i volontari del Polish White Eagle Club di Balham hanno dichiarato di aver ricevuto tra le altre cose anche tanta “spazzatura”, come se alcuni avessero “sgomberato il loro vecchio garage”. Ripetuti gli appelli alla gente a non inviare: vestiti sporchi, cialde di caffè, e una variegata lista di oggetti bizzarri. Inclusi abiti estivi e scarpe con tacchi a spillo. Quando serve urgentemente: articoli da bagno, igienizzanti, pannolini, salviette e tamponi, asciugamani e coperte.

Callum Anderson, organizzatore del centro di donazioni ad Athy, nella contea di Kildare in Irlanda, ha ammesso di aver dovuto interrompere la raccolta, divenuta insostenibile. “Abbiamo avuto una signora che ci ha contattato per dirci che aveva vestiti e accessori firmati. E mi è venuto in mente che qualcuno che scappa dalla guerra in Ucraina non ha certo bisogno di una borsa firmata”.

Al signor Anderson va tutta la nostra solidarietà, ma quella vera.