Roberto Mancini (foto: @m.iacobucci.tiscali.it - Depositphotos)

di MARCO FERRARI

Quando ai Mondiali inglesi del 1966 incappammo nella famosa sconfitta contro la Corea del Nord, la Federazione decide di chiudere le frontiere del pallone per far ripartire il calcio nostrano. L’unica eccezione furono gli oriundi, i famosi “angeli dalla faccia sporca”. Dopo l’amara eliminazione dai Mondiali del Qatar ci si domanda come risollevare una delle principali industrie del Belpaese. Per la seconda volta l’Italia, campione d’Europa, non ha staccato il biglietto per la competizione sportiva principale del pianeta, in programma nel paese arabo a novembre-dicembre. Quattro anni fu la Svezia a farci fuori agli spareggi, adesso è toccato alla modestissima Macedonia del Nord, al sessantasettesimo posto nel ranking Fifa. Evidentemente le nazioni con nomi settentrionali non fanno bene alla salute degli azzurri, vittime della più umiliante sconfitta in 112 anni di gare. Il gol di Trajkovski, già calciatore del Palermo, con un figlio nato in Sicilia, ora al tramonto della carriera in Arabia, ci inchioda alla nostra pochezza, già nota a livello di club, visto che non vinciamo più una competizione europea da dodici anni. Una doppia eliminazione che in passato ha colpito altre nazioni, come l’Olanda, la Francia e la Spagna e che apre un capitolo tutto da decifrare e costruire. Anche Roberto Mancini, un uomo fortunato, almeno nel calcio, con la quarta sconfitta in 47 panchine, tocca il fondo della sua carriera da allenatore, da cui sarà difficile risollevarsi (vedi l’ex c.t. azzurro Ventura, ritiratosi dal pallone). Ora non si sa ancora quale scelta farà Mancini, atteso da un inutile match contro la Turchia, ma già si parla di Paolo Cannavaro con la supervisione dell’eterno Marcello Lippi. L’Italia vincitrice a Wembley lo scorso anno si è dissolta in poco tempo, facendo pensare più a un trionfo casuale e anomalo nel torneo continentale, che all’avvio di un ciclo pluriennale. In un anno Mancini ha sperperato, anche in termini di uomini, la personalità della squadra, complice i vertici del pallone che non hanno neppure concesso la sosta del campionato, pur di mantenere gli impegni televisivi. Come uscire da questa crisi? Oggi un provvedimento restrittivo sarebbe impensabile con la libera circolazione nell’Europa unita e con l’aumento degli oriundi con passaporto comunitario per ius sanguinis. Ma un occhio ai giovani si potrebbe pure dare, magari con un provvedimento ad hoc che imponga la presenza in squadra di un numero obbligatorio di Under 21. Di certo la Serie A è il campionato con la maggior percentuale di calciatori stranieri tra i top cinque d’Europa. Una statistica in netta controtendenza rispetto alla storia del nostro calcio, che ci mette a un livello superiore di altri campionati, come quello inglese. Nessun torneo, come la Serie A, ha percentuali così alte di straniere all’interno delle rose delle squadre. Nel nostro campionato la percentuale dei giocatori di altre nazionalità ha superato il 60%, con un aumento di oltre il 18% negli ultimi dodici anni. Nella Bundesliga gli stranieri sono il 52%, con un guadagno di circa 6 punti rispetto al 2015. Frontiere molto meno aperte invece in Francia e in Spagna. Nella Ligue 1 la percentuale di stranieri supera di poco il 40%, mentre la Liga arriva solo al 38%. Ed è forse anche per questo che la nazionale spagnola si ritrova con tanti nuovi talenti pronti a prendere il posto dei calciatori più anziani del gruppo. Ma il dramma italiano riguarda i giovani: nelle rose di Serie A ci sono appena 2,7 giocatori italiani Under 21 in media a squadra. E, sempre in media, a scendere in campo dal primo minuto ne va meno di uno a partita: lo 0,43 per cento. Il loro minutaggio complessivo è del 4 per cento. E nell’80 per cento dei casi entrano oltre il 70esimo minuto. Non va meglio neppure in B: 3,7 Under 21 in rosa, 0,8 titolari a partita, 7 per cento dei minuti giocati sul totale, quasi due volte su tre in campo soltanto nei 20 minuti finali. Come ha detto il commissario tecnico della nazionale Under 21 Paolo Nicolato presto saremo costretti a pescare giovani in serie C per completare le compagini azzurre. Anche Arrigo Sacchi denuncia il fatto che continuiamo a comprare stranieri per i settori giovani e si domanda se questa sia la strada giusta per il rilancio del pallone di casa nostra.

Secondo il Cies football observatory, dal 2009 ad oggi la percentuale di giocatori stranieri in Europa è passata dal 34,7 al 42 per cento e l’età media si è alzata dai 25,9 ai 26,2 anni, mentre l’impiego di calciatori cresciuti nei vivai è crollato dal 23,2 al 17 per cento. La Serie A è penultima, per calciatori Under 21, peraltro indistinti per nazionalità. È penultima anche per utilizzo di giocatori dalla Primavera (8,9 per cento), mentre Inghilterra (12,7) e Spagna (20,9) si stanno risollevando. Ha inoltre la quarta età media più alta, quasi 27 anni. Dati impietosi che testimoniano l’abbandono dei vivai e il ricorso costante a stranieri acquistabili a costi abbordabili. Ma sicuramente Gabriele Gravina, presidente della Figc, rimarrà al suo posto, nonostante le pesanti responsabilità di uno sport sempre più degradato a immagine televisiva, governato dai procuratori affamati di soldi e operatori stranieri con guadagni multipli, pieno di società indebitate e con gli stadi ormai vuoti.