Giuseppe Conte (foto: depositphotos)

di Cristofaro Sola

Il Movimento che fu di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, e oggi di Giuseppe Conte, è pronto alla guerra contro Mario Draghi e il suo governo. Che la crisi covasse nelle viscere del partito di maggioranza relativa, era cosa nota da tempo. Tuttavia, le lotte intestine tra capi e capetti dell’ex grillismo e l’intervenuta delegittimazione del nuovo corso pentastellato per mano di una sentenza della magistratura, non avevano consentito al malcontento interno verso l’operato del governo di manifestarsi nelle sue effettive dimensioni. Oggi, invece, è possibile che accada, perché i vertici del Movimento hanno percorso all’indietro la strada congressuale, richiamando gli iscritti a un voto di convalida/conferma dell’attuale leadership pentastellata. La base, come si dice in questi casi, ha risposto. Sebbene non nei numeri sperati, comunque ha confermato la volontà di essere guidata dall’avvocato di Volturara Appula. Se verso nuovi traguardi o, più realisticamente, verso la sopravvivenza, si vedrà.

Ma andiamo con ordine. Nella due giorni elettorale, gli iscritti al Movimento hanno votato Giuseppe Conte presidente. Dei 130.570 aventi diritto, hanno cliccato all’indirizzo mail elezioni@movimento5stelle.eu in 59.047. Di questi, il 94,19 per cento (55.618) si sono espressi a favore di Conte; il 5,81 per cento (3.429) si è detto contrario. Oltre a Giuseppe Conte, la base ha confermato l’organigramma stabilito dall’ex premier all’atto della sua scalata alla testa del nuovo corso grillino. Laura Bottici, la più votata per andare a integrare la triade del Comitato di garanzia, insieme ai già nominati Roberto Fico e Virginia Raggi. Il Collegio dei probiviri è composto da Danilo Toninelli, Fabiana Dadone, Barbara Floridia. Confermati alla carica di vicepresidenti Michele Gubitosa, Riccardo Ricciardi, Paola Taverna (vicepresidente vicaria), Alessandra Todde e Mario Turco, che di fatto saranno la guardia pretoriana posta a difesa della presidenza Conte dagli attacchi dei nemici interni ed esterni.

Dalla scorsa dei nomi si capisce benissimo che lo sconfitto è lui, Luigi Di Maio, il grillino che volle farsi democristiano e draghiano per restare al potere a qualsiasi costo. Ed è sempre lui, il “governista”, il primo obiettivo della caccia grossa che Conte si appresta ad aprire nelle prossime ore. L’obiettivo della presidenza dell’ex premier (buona la seconda?) punta a portare, nella prossima legislatura, una pattuglia di parlamentari Cinque Stelle, suoi fedelissimi, depurata della componente legata agli odierni “governisti”, che possa avere un ruolo determinante nella composizione delle future maggioranze. Per raggiungere il risultato, per nulla scontato, Giuseppe Conte deve tirare fuori il Movimento dall’immobilismo politico in cui si è cacciato dopo l’appoggio garantito al governo Draghi. Allo scopo, si fa strada la possibilità di uno smarcamento del Cinque Stelle dall’odierna maggioranza. Non fosse altro per non lasciare campo aperto all’opposizione solitaria di Fratelli d’Italia, che sta capitalizzando in modo ottimale la decisione di andare controcorrente rispetto al mainstream pro-Draghi. Anche l’abbraccio mortale con il Partito Democratico non convince più Conte e i suoi, che vorrebbero un’alleanza alla pari nel centrosinistra e non un’umiliante annessione, come i comportamenti concludenti della leadership “dem” di questi mesi hanno fatto trasparire.

Che la scelta di svoltare in direzione delle “mani libere”, almeno per questo scorcio di legislatura, non potesse essere semplicemente un espediente tattico ma dovesse comportare un riposizionamento strategico lo dimostra il fatto che il voto di conferma al suo mandato non è stato a scatola chiusa ma è stato condizionato da un messaggio inequivocabile che lo stesso Conte ha inviato agli iscritti. Egli scrive: “Le sfide che ci attendono ci impongono di essere compatti, uniti. Io non posso – per rispetto di tutti quelli credono in questo progetto – accettare che ci sia chi rema contro le nostre battaglie, la nostra azione politica. Non posso consentire che di fronte agli sforzi di molti, di un’intera comunità, ci sia proprio al nostro interno chi lavora per interessi propri. Quindi non votatemi se pensate che il Movimento 5 Stelle debba essere lì nelle stanze dei bottoni, anziché nei territori e fra le persone”. Più chiari di così, si muore.

La stanza dei bottoni, nella quale il “reprobo” Di Maio sguazza, non è più la priorità per colui che è riuscito nell’impresa di guidare due governi di opposto segno pur di restare incollato alla poltrona di premier. Ma per rompere con Draghi occorre un pretesto, possibilmente condiviso dalla parte maggioritaria dell’elettorato grillino. Giuseppe Conte lo ha trovato: la pistola fumante c’è. Anch’essa finita nella “lettera agli iscritti” e diventata, per effetto della votazione, posizione ufficiale del Cinque Stelle. È l’opposizione all’innalzamento della spesa per la Difesa al due per cento del Pil, piatto forte dell’ultimo Draghi, versione ultra-atlantista. Anche se la misura sia stata concordata in sede Nato proprio dal suo governo, Conte finge di non ricordarlo. Adesso il leitmotiv è il pacifismo disarmato che diventa la nuova “linea del Piave” sulla quale ha impegnato il Movimento scrivendo nella lettera-manifesto: “Sarò il presidente di un Movimento che dice no a un aumento massiccio delle spese militari a carico del bilancio dello Stato, soprattutto in un momento del genere”.

Conte ha ben chiaro che qualsiasi esito avrà la proposta di riarmo voluta da Mario Draghi, per lui si configurerà quello che gli anglosassoni chiamano win-win situation, cioè comunque vada vince. Se Draghi, in nome della salvaguardia del patto di maggioranza, farà un passo indietro annacquando la decisione che sta per essere inserita nel Def (Documento di Economia e Finanza), l’avvocato di Volturara Appula potrà cantare vittoria rivendicando il diritto per il suo partito di dettare la linea al governo. Se, al contrario, Draghi dovesse tirare dritto per la sua strada e ignorare il niet pentastellato, Conte ne ricaverà sufficienti argomenti per ritirare la delegazione pentastellata dall’esecutivo e, in caso di inasprimento dei rapporti con l’alleato “dem”, per spingersi a revocare la fiducia al governo schierando il partito all’opposizione. Il capo pentastellato gioca d’azzardo contando sul fatto che, a meno di un anno dalle elezioni politiche, con una guerra in corso, con una pandemia non ancora archiviata, con l’inflazione che galoppa e con uno stop alla ripresa economica alle porte, sia inimmaginabile l’apertura di una crisi di governo che sfoci nell’interruzione anticipata della legislatura.

Probabilmente, nella testa di Giuseppe Conte frulla l’idea di un appoggio esterno all’esecutivo, subordinato alla facoltà di scegliere di volta in volta quali provvedimenti governativi appoggiare e quali rigettare. Per soprammercato, si produrrebbe un effetto indiretto, funzionale all’obiettivo di contizzare il Movimento. Un’uscita dalla maggioranza comporterebbe il ritiro della delegazione pentastellata dall’esecutivo. Di fronte a una tale prospettiva, che faranno i ministri e i sottosegretari grillini, a cominciare dal più governista di tutti, Luigi Di Maio? Risponderanno a Conte con un garibaldino “obbedisco!” o ripiegheranno verso un opportunistico, mussoliniano “me ne frego!”? È di tutta evidenza che Conte non tollererà ammutinamenti. Vuole la resa dei conti con Di Maio e perciò lo inchioderà alla scelta: chinare il capo e allinearsi o andarsene per la sua strada.

Non è quindi escluso che la scissione del Cinque Stelle, tanto evocata nei mesi scorsi, vedrà la luce nelle prossime settimane. Con l’ufficializzazione della rottura l’utopia, il non-luogo della visione di Gianroberto Casaleggio, si materializzerà in due universi fisici speculari e confliggenti: uno, pseudo-protestatario, vocato a recuperare una quota di qualunquismo sedimentato sul fondo della nostra società e rimpastato con un rinnovellato giustizialismo; l’altro, destinato a occupare uno spazio politico nel terzismo centrista di marca moderata che va coagulandosi tra gli scranni parlamentari sotto l’effigie di Mario Draghi. Comunque si concluda la querelle pentastellata, resta il dato drammatico: l’Italia è nelle mani di un manipolo di dilettanti allo sbaraglio. Che non sono le migliori e le più sicure alle quali affidare il destino di una nazione.