di Lorenzo Santucci

 

Se ci sono zone d’Europa in cui il fascino di Vladimir Putin attecchisce ancora molto, queste sono Serbia e Ungheria, dove domenica Aleksandar Vučić e Viktor Orbán andranno a caccia di una nuova affermazione politica. Salvo cataclismi, entrambi centreranno il proprio obiettivo, il primo con più facilità del secondo. I sondaggi delle elezioni parlamentari serbe prevedono una vittoria al primo turno del partito del presidente, mentre alle elezioni parlamentari ungheresi il partito di governo Fidesz ha un vantaggio più risicato sull’opposizione. Inevitabile che un peso specifico lo abbia la guerra in Ucraina, entrata a gamba tesa nelle relative campagne elettorali, oscurando di fatto gli altri temi come lo Stato di diritto, la corruzione, la crisi sanitaria e quella ambientale che interessano entrambi i Paesi. In Ungheria e in Serbia, la vicinanza al Cremlino non è un tabù e viene dimostrata dagli stretti rapporti governativi ed economici, oltre che dal sostegno di una parte della cittadinanza all’operazione militare di Vladimir Putin.

Sulle elezioni saranno dunque puntati gli occhi dello Zar. L’umiliazione delle bombe Nato sganciate nel 1999 sulla Serbia è ancora vivida nella sua mente e non perde occasione per inserirla tra le responsabilità occidentali che hanno portato alla situazione attuale. Un’opinione naturalmente condivisa anche dai serbi, che non hanno mai nascosto il sentimento filorusso. Nemmeno Vučić, fiero della sua amicizia con Putin che non gli permette di allinearsi alle sanzioni, considerate dal ministro degli Esteri Ivica Dacic “un suicidio politico”. Belgrado ha fatto la sua scelta: ha condannato l’invasione e si è detta disponibile ad aprire le porte ai profughi ucraini, senza però interrompere le comunicazioni con Mosca – la tratta aerea è solo diminuita - o incrinare i rapporti. Anzi, la guerra sembrerebbe aver fornito un assist elettorale che il presidente in carica non si è lasciato sfuggire. “La guerra ha distolto l’attenzione pubblica da ciò che sta accadendo in Serbia e, naturalmente, con il supporto dei media, ha consentito a Vučić di dare la colpa alla crisi per tutto quello che non va”, ha dichiarato la leader di Russia Unita Dragan Djilas.

“Pace. Stabilità. Vučić” è lo slogan utilizzato per ergersi a uomo forte, l’unico capace di non trascinare il Paese nella turbolenza internazionale ma piuttosto risolverlo, come dimostrato dalla sua disponibilità ad ospitare i prossimi negoziati di pace. Dovrebbe bastare per convincere i 6,5 milioni di elettori a votare il suo Partito Progressista Serbo (SNS) alle elezioni presidenziali e amministrative del 3 aprile. Il voto infatti è l’occasione per un rinnovamento completo, che non ci sarà. Al massimo, Vučić dovrà sopportare la perdita di qualche seggio rispetto ai 188 (su 256) su cui siedono i suoi parlamentari. L’unico dubbio – e che dubbio – riguarda Belgrado. Se a livello nazionale Vučić vola con il 53,6% dei consensi, staccando l’opposizione ferma al 13,7%, la questione è più complessa nella capitale, dove è in corso un testa a testa. Una sconfitta del partito SNS non sarebbe un buon modo per celebrare la rielezione.

A differenza dell’ultima volta quando nel 2020 i partiti avevano boicottato l’elezione per protestare contro la deriva autoritaria del governo (criticata anche dall’Ue e motivo per cui il presidente ha voluto anticiparle di due anni), l’opposizione si presenterà in massa e proverà a rovinargli la festa. A guidarla è l’ex generale in pensione Zdravko Ponos, candidato di Serbia Unita, il partito con più chances – si fa per dire. L’obiettivo è quello di portare  Vučić al secondo turno, così che ci possa essere una sorta di referendum su di lui. Scalfire il sistema clientelare che si è instaurato in Serbia sarà tuttavia molto complesso. La cifra spesa dal SNS per la pubblicità elettorale (728mila euro) non è in grado di spenderla nessun altro candidato o partito. Per di più, il governo controlla i principali strumenti di informazione, alcuni dei quali accolgono esponenti di opposizione senza però lasciare spazio alle loro idee. Quelle di Vučić sono invece state ripetute ad oltranza e hanno ripercorso i suoi successi in veste di primo ministro e poi da presidente della Repubblica: risanamento delle finanze pubbliche, riduzione del debito e della disoccupazione (-15%), raddoppio degli stipendi sviluppo di progetti infrastrutturali che hanno previsto la costruzione di strade, autostrade, ferrovie, ospedali e scuole. Infine, una migliore attrazione del Paese per gli investimenti esteri. In sostanza ha modernizzato la Serbia, cresciuta sotto il profilo internazionale anche grazie all’avvicinamento all’Unione europea. 

La strada verso Bruxelles si sta facendo però più tortuosa. Complice quel filo che la lega a Mosca e che lo stesso Vučić non ha intenzione di allentare, figurarsi spezzarlo. Prendere posizione contro la Russia vorrebbe dire lasciare per strada tanti voti di elettori che invece credono ciecamente nell’alleanza. Nei giorni scorsi, migliaia di persone sono scese per le strade di Belgrado con bandiere russe al seguito e cantando slogan che accomunano la Crimea al Kosovo. Su un muro della capitale è stata dipinta la faccia del presidente russo e la scritta “fratello” a fianco, a simboleggiare la vicinanza tra Serbia e Russia riassumibile in una parola: vittimismo. “A causa del trauma di 23 anni fa”, ha spiegato l’ambasciatore ucraino in Serbia ricordando l’operazione della Nato in Kosovo, “qualsiasi cosa brutta accada nel mondo la colpa è degli Stati Uniti”. A chiarire ancora meglio la posizione si è aggiunto anche il vicepresidente del Movimento europeo Serbia, che ha spiegato come questa “non è tanto filorussa, quanto odia la Nato. Stiamo ancora parlando di quello che è successo negli anni Novanta. È un ciclo infinito. Siamo bloccati a parlare delle stesse cose ancora e ancora”.

Probabilmente sarà così anche dopo il voto di oggi. Per sperare quantomeno in un ballottaggio, l’affluenza alle urne sarà fondamentale, ma le condizioni metereologiche non sembrerebbero alleate. Per la società di consulenza Teneo, infatti, il maltempo previsto dovrebbe far desistere alcuni cittadini ad uscire di casa e recarsi al seggio. Stesso problema anche per l’Ungheria, attesa da un fine settimana di pioggia, vento e temperature anche sotto lo zero celsius. Ancor più che in Serbia, il dato dell’affluenza sarà determinante ai fini del voto. Il vantaggio di Viktor Orbán sulla coalizione Uniti per l’Ungheria -  6 partiti ideologicamente in contrasto tra di loro ma riuniti dall’ex sindaco di Hodmezovasarhely, Peter Marki-Zay, per cercare una storica vittoria - è minimo. Questione di due punti percentuali, con Fidesz al 51% contro il 49% di Uniti per l’Ungheria. Purtuttavia l’incertezza è tale che non lascia ipotizzare scenari certi. Il direttore dell'istituto sondaggistico Median ha affermato come “potrà esserci una sorpresa”, che potrebbe arrivare dalle intenzioni di voto ancora non chiare per un quinto dei 10 milioni di elettori. Come con Vučić, da battere però non c’è solo il presidente uscente ma il sistema da lui instaurato, caratterizzato da un controllo tale che può mantenerlo ancora in piedi nonostante le difficoltà che neanche lui si aspettava. “La posta in gioco è molto più alta di quanto avrei potuto immaginare, anche per un vecchio cavallo di battaglia come me”, è arrivato a dire.

Uno degli intralci lungo la via della rielezione è proprio la guerra in Ucraina, per cui il leader europeo più longevo (12 anni) si è trovato inizialmente spaesato per la posizione da prendere: con l’Europa e il mondo occidentale o con l’amico Putin? La scelta alla fine è ricaduta nel mezzo, con la condanna dell’invasione e con l’adozione di sanzioni soft che rischiano di spaccare il gruppo Visegrad, come nel caso della dipendenza energetica dalla Russia che ha portato Budapest a opporsi con forza all’embargo su petrolio e gas. Nonostante ciò, il governo ungherese ha dovuto comunque buttar giù bocconi amari, dall’accoglienza al passaggio sul suo territorio di armi agli ucraini. Di fronte all’intransigenza ungherese il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha chiesto al suo omologo di aprire gli occhi su quanto sta accadendo a Mariupol. Probabilmente non è piaciuto il trattamento, tanto che da Budapest accusano Kiyv di “influenzare l’esito delle elezioni” tramite i contatti tra il presidente Zelesnky e il leader dell’opposizione Mßrki-Zay. “La sinistra è stata smascherata”, ha tuonato il ministro degli Esteri magiaro Péter Szijjßrtó, svelando a suo dire un piano di reciproco aiuto (sanzioni sull’energia in cambio di sostegno dall’Ucraina) smentito con forza dal ministro ucraino Dmytro Kuleba.

Ma la guerra sembra aver anche agevolato il lavoro a Orbán, che ha bollato come responsabilità delle sanzioni europee l’alta inflazione che galoppa nel Paese e tutti gli altri aspetti negativi. Seguendo l’esempio dell’omologo serbo, ha accusato i suoi antagonisti di voler portare l’Ungheria in guerra. L’ambiguità orbaniana ha però avuto i suoi effetti. Ha apparentemente reso il presidente ungherese un politico super partes che chiede la pace senza inimicarsi nessuno. Non l’Europa, che ha al suo interno altri e più importanti attori che si oppongono all’embargo energetico, e non la Russia con cui continuerà a fare affari per salvaguardare l’interesse nazionale. Continuando ad assicurarsi l’energia necessaria ha infatti tranquillizzato molti cittadini spaventati delle ripercussioni minacciate da Putin, specie coloro che vivono nelle campagne.

La paura è un altro elemento su cui, tanto Orbán quanto Vučić, hanno spinto durante la loro campagna elettorale. Non potendo dare le spalle né ad est né ad ovest, hanno sfruttato la guerra per rinsaldare il vincolo con i propri elettori, garantendogli di voler perseguire solo ciò che è giusto per il Paese, e scrollarsi di dosso le responsabilità per i problemi di casa loro. Mezze verità condite da tanta retorica nazionalista e populista per non scontentare nessuno. In Serbia “ogni giorno vengono pubblicati articoli” che raccontano storie false, come il fatto che “in Italia e Germania un chilogrammo di pane costa 9 euro, su come non hanno carburante e su come avranno buoni pasto” per mangiare. Tutto per dimostrare alla popolazione “quanto siamo bravi” perché “la gente ha paura e alle autorità va sempre bene perché la gente dice: “Non cambiamo nulla ora”. Proprio quello che dovrebbe accadere domenica.