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di Marco Carminati

Nei giorni 7 e 8 aprile 2022 si svolgerà, in modalità mista, la seconda edizione della Giornata mondiale della lingua latina, lanciata dalla direzione nazionale della Associazione italiana di cultura classica in collaborazione con Università Sapienza, Roma Tre, Istituto italiano per la Storia antica, oltreché l'Unesco e Fédération internationale des etudes classiques.
A raccontare il significato e l'attualità del latino oggi, è l'appassionato e insigne latinista Nicola Gardini.
Che inizia citando un esempio: Victor Hugo, nei “Miserabili”, usa l'espressione latina “Scabra rubigine” per indicare palle di cannone sforacchiate, vecchie lame di sciabole, proiettili informi corrosi dalla ruggine. Ma “Scabra rubigine” è una citazione virgiliana. La fonte è il primo libro delle Georgiche (I, 493-497), dove troviamo una situazione analoga. Nei versi appena precedenti Virgilio ricorda la battaglia di Filippi (42 a. C.), in cui Ottaviano sconfisse Bruto e Cassio, gli uccisori di Giulio Cesare. Ma il virgiliano «scabra rubigine» deriva a sua vola da un carme di Catullo (68b, 149-153), dove il contesto non è bellico, ma si allude alle ingiurie del tempo laddove il poeta si rivolge a un certo Allio e afferma di voler perpetuare il suo nome. 

Il pur circoscritto esempio di «scabra rubigine ci aiuta a farci un'idea dell'importanza del latino, perché ci insegna che sotto la nostra realtà ce n'è sempre un'altra, pronta a irrompere; che siamo fatti di tracce; che ci sono cose che ci riguardano anche se non ce ne accorgiamo e non perché evitiamo di prenderle in considerazione quelle non agiscono. Conoscere il latino, in qualunque forma, fosse anche la rapida ripresa di due parole, vuol dire aver chiaro che tutto quel facciamo è storia e deve tradursi in coscienza della nostra storicità.
Il latino è, di fatto e in teoria, sostanza di un mondo che, per quanto nascosto o dissimulato, perdura. È necessario perché, con i suoi racconti e con il suo stesso esempio, ci aiuta a sistemare l'esperienza di oggi nell'abbraccio della memoria, non semplicemente nello spazio egoistico dell'attualità; perché ci porta a cercare altrove, a stabilire parallelismi, convergenze, opposizioni; e anche perché, mentre rivela affinità, illumina differenze radicali.
Credere nella necessità del latino è credere nella necessità dell'interpretazione: voler scoprire i giacimenti metaforici delle cose; togliere la cronaca dai binari delle circostanze presenti ed esaminarla alla luce del segreto, del celato, dell'evanescente. E sarà la cronaca stessa a evocare, per chi sa ascoltare e guardare, quel che dovrà illuminarla. 

Caro Direttore,

“Perché studiare il greco e il latino che sono lingue morte?” 

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Rispondere a questa domanda è sempre stato molto difficile. Il greco ed il latino non sono affatto “lingue morte”, sono più vive di quanto immaginiamo, ed in particolare il latino è racchiuso dentro le parole che pronunciamo ogni giorno, fa parte della nostra storia e del nostro presente. Dopo gli attentati di Parigi del 13 novembre 2015, la capitale francese ha deciso di dare voce al proprio dolore e alla propria forza attraverso le parole:”Fluctuat nec mergitur”, la nave che “È sbattuta dalle onde ma non affonda”. Il latino è una lingua tuttora in grado di dare un senso alla nostra identità, lo strumento espressivo che è servito e serve a fare di noi quelli che siamo.  La conoscenza del Latino permette di apprezzare maggiormente molti aspetti della realtà. Lo studio di una lingua antica e morta insegna a ragionare e sviluppa la logica.  In primo luogo, l’esperienza c’insegna che il Latino spalanca la comprensione del presente come epoca che è figlia di un passato. La nostra tradizione occidentale ha le sue radici nella cultura greca, in quella romana e in quella cristiana. Il ragionamento, la filosofia, il gusto della bellezza, etc. sono in gran parte eredità lasciataci dai Greci, il diritto, il senso dell’unità dello Stato, etc. provengono dai Romani, l’avvenimento cristiano ha, poi, introdotto una nuova concezione della persona, della civiltà, della società, etc. Quindi, studiare la civiltà, la letteratura e la lingua latina significa conoscere le proprie radici, è un po’ come conoscere meglio un proprio genitore. Permette di cogliere ciò che accomuna l’uomo di oggi all’uomo antico e, nel contempo, introduce alla comprensione del cambiamento avvenuto nei secoli. La lingua e la parola raccontano la storia di una civiltà, dell’evoluzione umana, della cultura di un popolo. Vorremmo qui addurre un solo esempio. Pensiamo al vocabolo «cultura». Il fascino di una parola risiede nel fatto che essa descrive una storia, racconta una parte dell’avventura umana. Il verbo latino colo, che è alla base della parola «cultura», sottolinea e descrive il passaggio dell’uomo dalla condizione nomade a quella sedentaria. Il verbo significa «coltivare», «abitare», «venerare». Un popolo che diventa sedentario ha imparato a coltivare la terra, la abita e venera le divinità del luogo. Nel termine «cultura» risiede questo radicamento nelle proprie origini e nella propria terra, senza il quale non è possibile crescere e dare frutti. Da questo radicamento scaturisce la possibilità di trarre linfa vitale, ovvero la possibilità di germogliare, di crescere nel fusto e di dare frutti buoni. Capiamo allora che la cultura non ha a che fare con la conoscenza di tante componenti della realtà, ma deriva da un passato (il terreno in cui siamo cresciuti, la tradizione) e si apre ad una domanda sul presente e sul futuro. La lettura delle grandi opere della letteratura latina, di Virgilio, di Orazio, di Seneca, di Cicerone (per citare solo qualche nome illustre) permette di incontrare i «grandi del passato», di confrontarci con loro (come scrive Machiavelli nella lettera a Francesco Vettori del 10 dicembre 1513), di scoprire il loro pensiero, i loro vertici artistici.

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Caro Direttore,

“Perché studiare ancora il greco e il latino che sono lingue morte?” 

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Rispondere a questa domanda è sempre stato molto difficile. Il greco ed il latino non sono affatto “lingue morte”, sono più vive di quanto immaginiamo, ed in particolare il latino è racchiuso dentro le parole che pronunciamo ogni giorno, fa parte della nostra storia e del nostro presente. Dopo gli attentati di Parigi del 13 novembre 2015, la capitale francese ha deciso di dare voce al proprio dolore e alla propria forza attraverso le parole:”Fluctuat nec mergitur”, la nave che “È sbattuta dalle onde ma non affonda”. Il latino è una lingua tuttora in grado di dare un senso alla nostra identità, lo strumento espressivo che è servito e serve a fare di noi quelli che siamo.  La conoscenza del Latino permette di apprezzare maggiormente molti aspetti della realtà. Lo studio di una lingua antica e morta insegna a ragionare e sviluppa la logica.  In primo luogo, l’esperienza c’insegna che il Latino spalanca la comprensione del presente come epoca che è figlia di un passato. La nostra tradizione occidentale ha le sue radici nella cultura greca, in quella romana e in quella cristiana. Il ragionamento, la filosofia, il gusto della bellezza, etc. sono in gran parte eredità lasciataci dai Greci, il diritto, il senso dell’unità dello Stato, etc. provengono dai Romani, l’avvenimento cristiano ha, poi, introdotto una nuova concezione della persona, della civiltà, della società, etc. Quindi, studiare la civiltà, la letteratura e la lingua latina significa conoscere le proprie radici, è un po’ come conoscere meglio un proprio genitore. Permette di cogliere ciò che accomuna l’uomo di oggi all’uomo antico e, nel contempo, introduce alla comprensione del cambiamento avvenuto nei secoli. La lingua e la parola raccontano la storia di una civiltà, dell’evoluzione umana, della cultura di un popolo. Vorremmo qui addurre un solo esempio. Pensiamo al vocabolo «cultura». Il fascino di una parola risiede nel fatto che essa descrive una storia, racconta una parte dell’avventura umana. Il verbo latino colo, che è alla base della parola «cultura», sottolinea e descrive il passaggio dell’uomo dalla condizione nomade a quella sedentaria. Il verbo significa «coltivare», «abitare», «venerare». Un popolo che diventa sedentario ha imparato a coltivare la terra, la abita e venera le divinità del luogo. Nel termine «cultura» risiede questo radicamento nelle proprie origini e nella propria terra, senza il quale non è possibile crescere e dare frutti. Da questo radicamento scaturisce la possibilità di trarre linfa vitale, ovvero la possibilità di germogliare, di crescere nel fusto e di dare frutti buoni. Capiamo allora che la cultura non ha a che fare con la conoscenza di tante componenti della realtà, ma deriva da un passato (il terreno in cui siamo cresciuti, la tradizione) e si apre ad una domanda sul presente e sul futuro. La lettura delle grandi opere della letteratura latina, di Virgilio, di Orazio, di Seneca, di Cicerone (per citare solo qualche nome illustre) permette di incontrare i «grandi del passato», di confrontarci con loro (come scrive Machiavelli nella lettera a Francesco Vettori del 10 dicembre 1513), di scoprire il loro pensiero, i loro vertici artistici.