di Pietro Salvatori

“Forza Viktor, onore al libero Popolo ungherese”. Esulta di buon mattino Matteo Salvini per la vittoria alle elezioni in Ungheria di Viktor Orban, punto di riferimento in Europa della rete di alleanze costruite dal leader leghista e da Giorgia Meloni in Europa. Per la leader di Fratelli d’Italia è “una vittoria straordinaria”, contro un’opposizione che si era riunita in “un’accozzaglia” per tentare di batterlo.

È il quarto remake di un film già visto, tante sono le volte che Orban si è affermato in elezioni la cui trasparenza e la cui democraticità sono contestate a Budapest un po’ alla stregua di quel che avveniva a Mosca dopo le trionfali vittorie di Vladimir Putin. Ma è sicuramente l’episodio più significativo della saga, perché fa esplodere dentro casa dei sovranisti italiani tutte le contraddizioni della guerra in Ucraina.

Il leader ungherese ha festeggiato la sua vittoria esultando per averlo fatto "contro il globalismo, contro Soros, contro i media mainstream europei, e anche contro il presidente ucraino”. Un frullato di riferimenti complottisti e di un attacco in piena regola a Zelensky che fa cadere le congratolazioni prontamente arrivate da Roma in un abisso di controsenso. Si può festeggiare una vittoria di chi dice di averlo fatto in opposizione all’Unione europea (“Una vittoria eccezionale che si può vedere anche dalla luna, sicuramente da Bruxelles”), che cita argomenti stratificati nella narrazione cospirazionista e cavalcati dalla propaganda russa, e che addirittura si pone in opposizione del leader che da Kiev sta conducendo una battaglia contro una potenza che ha invaso il suo stato sovrano e democratico a suon di carri armati e bombe?

Evidentemente si può se Salvini, non pago delle congratulazioni mattutine, all’ora di pranzo spara sui suoi social una foto con Orban corredata della seguente didascalia: “Insieme si vince, anche senza i miliardi di Soros”. Ora, tra le tante cose che poteva dire Salvini per reiterare la propria vicinanza all’alleato, ha scelto di attaccare il finanziere al centro delle attenzioni del mondo complottistico, alimentate scientificamente dalla propaganda russa. Non più tardi di una settimana fa il ministero della Difesa russo ha presentato le prove che collegherebbero lui e Hunter Biden - un altro bersaglio fisso delle teorie della contro-informazione - in una sorta di super complotto che li vedrebbe finanziatori di laboratori biologici ucraini che sarebbero impegnati nello sviluppo di armi da scagliare contro la Russia.

Nelle posizioni atlantiste di Meloni e pacifiste di Salvini vengono disseminati sempre più indizi da un lato del rimpianto di Donald Trump quale centrale internazionale del sovranismo, dall’altro della sempre più crescente difficoltà a smarcarsi dalla Russia di Putin nonostante la continua escalation di orrori. Salvini è incredibilmente riuscito a non proferire verbo sui massacri di Bucha, a differenza di Meloni che ha condannato i crimini di guerra dell’esercito russo. Ma nella rete di alleanze europea di Fratelli d’Italia non tutti la pensano in questo modo. Thierry Baudet ha stamane rilanciato la teoria propagandata dai russi che quella di Bucha sia tutta una messa in scena per discreditare Mosca. Baudet è il leader dell’olandese Forum per la democrazia, partito alleato di Fratelli d’Italia il cui leader è stato accolto con tutti gli onori due anni e mezzo fa sul palco di Atreju, la festa nazionale del partito.

La “reductio a Trump” delle posizioni dei sovranisti europei, che prendono i rivoli delle diverse sensibilità nazionali, è forse semplicistica, ma rispecchia una tendenza che con sempre più evidenza si sta evidenziando nelle destre europee. Non a caso Salvini e Meloni sono gli unici leader che in Italia hanno festeggiato la rielezione di Orban, seguiti, ironia della sorte, dopo pochi minuti da Putin, come una nota del Cremlino ha tenuto a specificare.

Sull’ammirazione per il leader ungherese, rieletto su una piattaforma di contestazione evidente alle politiche dell’Unione europea che arrivano fin dentro la gestione della crisi - Orban è tra i pochissimi a non aver inviato armi a Kiev, sostenendo che l’Ungheria debba rimanere fuori dalla guerra - si registra uno dei tanti punti di convergenza fra Putin e Trump. L’ex presidente Usa un paio di mesi fa ha dato il suo "pieno sostegno e appoggio” alla rielezione di Orban, magnificando il suo "lavoro meraviglioso nel proteggere l'Ungheria, fermando l'immigrazione illegale”.

Da Budapest, il vincitore l’ha omaggiato a modo suo, ripetendo più volte durante la festa per la vittoria lo slogan “Prima l’Ungheria”, un chiaro riferimento al trumpiano “America First” ma declinato in salsa europea, un chiaro modo per identificare in Bruxelles un nemico da sconfiggere. Salcini è stato pronto a seguirlo sulla medesima strada, mettendo nel calderone delle battaglie vinte dall’amico quella contro “i sinistri fanatici del pensiero unico” e chi “vorrebbe cancellare le radici giudaico-cristiane dell’Europa” e “vorrebbe sradicare i valori legati a famiglia, sicurezza, merito, sviluppo, solidarietà, sovranità e libertà”. Parole simili a quelle pronunciate da Joachim Kuhs, membro del consiglio nazionale di Alternative für deutschland, partito di estrema destra tedesco e alleato a Strasburgo della Lega: “Orban è un faro in un’epoca oscura, difende i valori di valori, famiglia, fede che i partiti tradizionali hanno dimenticato”. Lo spagnolo Jorge Buxadè, vicepresidente dei sovranisti di Vox, è andato direttamente in Ungheria per seguire le elezioni festeggiando la “schiacciante vittoria di Fidesz con coalizione contro natura organizzata contro Orban”.

Poi Orban vince e rilancia le accuse al mondialismo, a Soros, ai media mainstream, perfino a Zelensky, definito dai complottisti nostrani un attore che si muove in un contesto hollywoodiano sapientemente costruito (cfr. Pino Cabras, parlamentare e presidente di Alternativa), i cui discorsi sono scritti da sceneggiatori che lavorano per il governo di Washington (cfr. Carlo Freccero). E il confine sottile tra una destra identitaria e conservatrice e un sovranismo che cavalca l’onda della disinformazione, anche russa, si assottiglia ogni giorno che passa, mescolando temi, istanze e presentando le stesse argomentazioni di volta in volta “ripulite” o esasperate, a seconda del pubblico a cui si vuol parlare.

Dopo aver assunto posizioni filo-Usa e schivato un’eccessiva sovraesposizione mediatica nelle prime settimane di guerra, Meloni è tornata a farsi combattiva. Venerdì scorso ha ricondotto i problemi dell’Occidente all’elezione alla Casa Bianca di Joe Biden: “Di fronte ai macroscopici errori ci aspetteremo delle scuse” da chi l’ha sostenuto, ha detto la leader di Fratelli d’Italia, sottintendendo che sarebbe stato meglio avere ancora Trump al governo oltreoceano. Un’argomentazione che ha sapientemente messo nel cassetto per non andare contro corrente all’onda emotiva dei primi giorni dell’invasione russa, ma che proprio negli Stati Uniti aveva già delineato lo scorso 28 febbraio, ospite del Cpac, l’annuale Convention dei Repubblicani: “Nessuno mi toglie dalla testa che senza lo scandaloso ritiro delle truppe da Kabul ieri, non avremmo mai visto il tragico assedio di Kiev oggi”.

E dunque Orban accarezza le parole d’ordine del cospirazionismo e ringrazia per il sostegno Trump, che in questi giorni tenta di massimizzare i suoi attacchi contro Biden, reo di avergli rubato la vittoria, non guardando in faccia a nessuno, e anzi chiedendo a Putin di tirare fuori le prove che inchiodino Hunter Biden (e dunque il padre) ai biolab ucraini, in una marmellata di propaganda russa, complottismo e battaglia politica nella quale è difficile raccapezzarsi. E nel frattempo la sua ala del partito ha candidato al Congresso nell’Arizona Ron Watkins, il principale sospettato di aver dato vita al grande complotto di Qanon, e in Florida Darlene Swaffar, aperta sostenitrice di Q che il 30 marzo scorso ha organizzato una raccolta fondi a Mar-a-Lago, luogo di residenza di Trump con il quale è stata immortalata in alcune foto ricordo.

Il fascino di Putin da parte di una destra identitaria, che per anni lo ha visto come un campione della riscoperta dei valori tradizionali in contrapposizione con la globalizzazione americana, e da parte di una destra sovranista che lo ha considerato un buon contraltare “all’euroburocrazia”, innervano il dibattito pubblico. Posizioni che, in molti casi, vedono in Trump una guida, ma soprattutto vedono in Biden, nei Democratici a stelle e strisce e nelle loro affiliazioni (vedi Soros) il grande avversario da combattere. Temi che in modo carsico ma sempre più insistente si stanno affacciando sempre più spesso anche nella narrazione della guerra offerta dai partiti della destra, estrema e non, in diversi paesi del nostro continente.

L’avversione si trasforma in vero e proprio odio se si scende in profondità nella bolla complottista, rafforzata da una straordinaria concordanza di idee e di vedute con la propaganda del Cremlino, aspetto che oggi la rende assai più pericolosa e più pervasiva nella base elettorale di molti dei movimenti della destra europea. Timofey Sergeytsev, professore all’Università di Mosca che per l’agenzia di stampa Ria Novosti ha scritto oggi un articolo su cosa dovrebbe fare Mosca una volta occupata l’Ucraina (tra le varie cose nazionalizzare istruzione e informazione, indagini di massa su chi ha sostenuto il governo nazista e via discorrendo) già nel 2016, a candidatura non ancora incassata, descriveva Trump sul sito dello Zinovev club come una speranza per l’America.

Aleksandr Dugin, ideologo di Putin, nel suo ultimo libro scrive che “il Grande Reset inizia con la vittoria di Biden, e il fatto che abbia un nome, e che questo nome sia apparso proprio nell’epicentro delle trasformazioni ideologiche e storiche, negli Stati Uniti, sullo sfondo della drammatica sconfitta di Trump, della disperata presa del Campidoglio, e della crescente ondata di repressione liberale è di grande importanza”. Dugin attacca “i globalisti che non nascondono più la natura totalitaria della loro teoria e della loro pratica”. Qualcuno potrebbe definirli anche i sinistri del pensiero unico. A suo rischio e pericolo.