di Giuseppe Colombo 

A spiegare la pervasività della guerra sull'economia italiana non è solamente l'impatto negativo sulla crescita, con la stima del Pil tagliata dal 4,7% al 3,1 per cento. Basta contare quante volte vengono riportate le parole legate al conflitto nel Documento di economia e finanza, la mappa che misura la portata della crisi e i suoi possibili sviluppi. La parola gas compare 111 volte, inflazione 66, energia 52, Russia 48, Ucraina 40, mentre deficit - il termine che di solito caratterizza il Def  - appena 28 volte. Dal vocabolario della politica economica del governo emergono sostanzialmente due considerazioni. La prima: la presa d'atto che la crisi durerà almeno fino alla fine del 2023, anche se le ostilità in Ucraina dovessero finire prima. La seconda: finiremo in recessione tecnica se verrà a mancare il gas russo e non saremo in grado di sostituirlo. E le bollette saranno molto più care di quelle che abbiamo pagato dall'autunno scorso ad oggi perché i prezzi del gas e dell'elettricità saranno più di due volte superiori ai livelli, già imponenti, che si sono registrati negli ultimi mesi.

Così la guerra ha spezzato la scia della crescita 

Il Def spiega e misura come la guerra ha invertito il trend positivo dell'anno scorso, quello che aveva portato il Pil su del 6,6% dopo il crollo del 2020. Qualcosa è iniziato ad andare storto già da ottobre dell'anno scorso e questo fornisce un elemento sulla composizione della crisi. Nell'ultimo trimestre, infatti, a rallentare la crescita sono stati l'inflazione, soprattutto quella legata all'energia, la carenza di materiali e di componenti e il Covid. E questi stessi fattori sono quelli che, unendosi a quello più legato al conflitto - le sanzioni - stanno aggravando oggi il deterioramento del quadro economico. Solo che fino ad ora l'impatto è stato contenuto, mentre il dato del Pil nel primo trimestre (-0,5%), spinto in giù dalla performance negavita dell'industria, spiega che la crepa si è aperta. E considerando che sempre uno di questi fattori - i prezzi dell'energia - sarà presente anche l'anno prossimo, insieme ai tassi di interesse più elevati e a una frenata del commercio mondiale, ecco che la previsione del Pil per il 2023 non è più del 2,8%, ma del 2,3 per cento.

Ma torniamo al primo trimestre, che assorbe i primi effetti della guerra. Ad accelerare l'involuzione dello scenario è stata inizialmente la revisione al rialzo delle aspettative di mercato sulla politica futura della Bce. E così i tassi di interesse hanno registrato aumenti significativi. L'inflazione, già elevata, è salita di intensità a causa del conflitto che ha fatto aumentare i prezzi delle materie prime alimentari, oltre a quelli del gas e del petrolio. In più il Covid: il governo non ha prorogato lo stato di emergenza, ma nel Def si ricorda che la pandemia è ancora in corso e "rimane un ostacolo all’attività economica a livello globale", con ripercussioni anche a livello nazionale.

Il segnale della crisi/1. Crolla la fiducia delle famiglie. Comprano meno case, auto e lavatrici

Ci sono i fattori legati alla guerra in modo più diretto, ma ci sono anche le ricadute che allargano il perimetro della crisi. "La fiducia delle famiglie italiane, già in fase di lieve discesa da ottobre - si legge nella bozza - è scesa marcatamente in marzo a causa della guerra in Ucraina". I prezzi di molti beni stanno aumentando, molto di più della fine dell'anno scorso. La valutazione delle proprie condizione economiche ancora regge, ma le famiglie spendono sempre bene per i beni durevoli: case, auto, lavatrici. Non è un caso se Draghi ha indicato proprio nel crollo della fiducia dei consumatori uno degli elementi che preoccupano di più e allo stesso tempo una delle leve che il governo e la maggioranza devono provare ad attivare.

Il segnale della crisi/2. Il down della produzione industriale tira giù la crescita

Le stime attese nelle prossime settimane diranno che a febbraio c'è stato un rimbalzo della produzione industriale, ma nonostante questo è la debolezza dell'industria a portare il Pil in negativo nel primo trimestre. Si guarda al secondo, quando il governo prevede "una moderata ripresa della crescita trimestrale", trainata principalmente dai servizi, ma il tema è che si parte da un passo indietro rispetto a un trend che si immaginava invece con il segno più davanti. Tra l'altro non è detto che andrà così. Draghi l'ha detto durante la riunione della cabina di regia che ha preceduto il Consiglio dei ministri che ha esaminato il Def. E lo scrive lo stesso governo nel documento dove si ricorda che l'indagine Istat di marzo ha messo in evidenza come le aspettative delle imprese manifatturiere sugli ordinativi e sulla produzione "sono nettamente peggiorate". Tradotto: rischi al ribasso.

I fattori di rischio. Le sanzioni possono bruciare 0,2 punti di Pil

Tra i fattori di rischio per la crescita ci sono anche le sanzioni che si ripercuotono sull'import-export tra Roma e Mosca. Il valore delle esportazioni verso la Russia non è enorme considerando che valgono l'1,5% di tutto l'export nazionale, ma il blocco sta comunque mettendo in difficoltà i settori più esposti: meccanica, mobili, abbigliamento, calzature, alimentare e mezzi di trasporto. Circa la metà dei settori coinvolti nell'export verso Mosca sono soggetti al divieto di esportazione e l'azzeramento di questa quota di export  causerebbe un calo del Pil di circa 0,2 punti quest'anno e di 0,1 punti nel 2023.

E l'aumento dei prezzi dei semilavorati aumenta l'erosione della crescita

Al momento non si sono registrate riduzioni delle forniture di gas da parte della Russia, ma per l'Italia sono vietate le importazioni di prodotti siderurgici e quelle dall'Ucraina sono limitate in modo evidente dal conflitto e dalla distruzione di importanti siti produttivi. Alcuni semilavorati saranno difficili da reperire e quindi costeranno di più: una catena che impatterà negativamente sul Pil per un importo sotto il decimo di punto percentuale. La minor crescita di quest'anno, per un peso pari a 0,2 punti percentuali, sarà determinata anche dall'impatto negativo della guerra sulla fiducia delle famiglie e delle imprese, oltre - si legge sempre nel Def - "ad aver causato una forte correzione nei mercati finanziari, peraltro parzialmente rientrata".

Il rischio di finire in recessione se non arriverà più il gas dalla Russia

Si chiamano scenari di rischio, quelli che diventeranno realtà se la questione del gas russo precipiterà. Cosa succederà se l'inasprimento delle sanzioni porterà all'interruzione dei flussi di metano dalla Russia? Il governo individua due evoluzioni, entrambe legate all'ipotesi di un'assenza del gas russo da aprile di quest'anno e per tutto il 2023. Il primo scenario prevede un maggior utilizzo del gas naturale liquido, un aumento della produzione nazionale di gas naturale e più metano in arrivo dai gasdotti meridionali. Considerando che anche gli altri Paesi si darebbero da fare per sostituire il gas russo, i prezzi energetici esploderebbero: quello del gas, che a fine marzo si attestava a circa 100 euro per megawattora, arriverebbe in media al di sopra dei 200 euro tra novembre e febbraio, contro una media di 90,8 euro dello stesso periodo registrato a cavallo tra il 2021 e il 2022. Nei mesi successivi e fino alla fine del 2023, il prezzo sarebbe pari a circa il doppio degli attuali livelli dei futures sulle scadenze corrispondenti. Tutto questo si tradurrebbe in una contrazione del Pil dello 0,8% quest'anno e dell'1,1% il prossimo, ma anche in una riduzione dell'occupazione dello 0,6% (0,7% l'anno prossimo) e di un ulteriore aumento dell'inflazione pari all'1,2 per cento.

Se però non si riuscirà a diversificare gli approvvigionamenti e anche gli altri Paesi dovranno fronteggiare carenze di gas, allora le conseguenze saranno ancora più dure. I prezzi dell'energia saranno ancora più elevati (il 10% in più rispetto al primo scenario) e il Pil crescerebbe solo dello 0,6% quest'anno e dello 0,4% il prossimo. Tradotto: recessione tecnica.

Un tesoretto da 9,5 miliardi, ma solo cinque saranno utilizzati per i nuovi aiuti

Il governo sceglie di confermare l'obiettivo di un rapporto tra deficit e Pil al 5,6% e considerando che l'indebitamento netto tendenziale (quello in assenza di interventi) è fissato al 5,1%, ecco che viene fuori un margine di 0,5 punti percentuali di Pil da utilizzare per nuovi aiuti. In tutto ci sono a disposizione 9,5 miliardi, ma 4,5 miliardi serviranno a ripristinare i fondi di bilancio che erano stati utilizzati per coprire i costi del decreto contro il caro bollette di inizio marzo. Restano quindi cinque miliardi: saranno impiegati entro fine aprile per contenere il prezzo della benzina e delle bollette, incrementare il fondo per le garanzie del credito, aiutare le imprese e potenziare l'accoglienza dei profughi ucraini.

Al di là dell'importo - contestato dai 5 stelle pochi minuti dopo il Cdm che ha approvato il Def all'unanimità - la linea scelta da palazzo Chigi e dal Tesoro guarda a un intervento contenuto rispetto alle esigenze generate dalla crisi. Prima si proverà in Europa con il Recovery di guerra, che se dovesse nascere coprirebbe i costi per nuovi interventi. Se le cose si dovessero mettere male, allora si allungherà la lista degli interventi nazionali. Ma a quel punto l'asticella del deficit dovrà alzarsi e l'indicazione contenuta nel Def riscritta.