DI PIETRO SALVATORI

Nei primi giorni della guerra Vladimir Putin accusava il governo ucraino di essere pieno di “nazisti e drogati” e chiedeva all’esercito di Kiev di sollevarsi e deporre il presidente Volodymyr Zelensky. Fallita la guerra lampo immaginata dagli strateghi del Cremlino, il processo di “denazificazione” che inizialmente si giustificava come la liberazione di un popolo fratello da un governo definito totalitario ha iniziato a coinvolgere sempre più strati della società. Timofei Sergeitsev, polemista russo noto per le sue posizioni nazionaliste, ha teorizzato lo scorso 3 aprile in un lungo articolo scritto per l’agenzia di stampa statale Ria Novosti la necessità di un sistema di purghe che vada avanti almeno per una generazione, “perché [oltre al governo] una parte significativa di persone che sono naziste passive o complici del nazismo è ugualmente colpevole”. L’inaspettata resistenza degli ucraini e le manifestazioni avverse all’esercito occupante hanno di fatto reso agli occhi di Putin l’intera popolazione ucraina una minaccia. Secondo Foreign policy, con il proseguire della guerra “la propaganda russa è diventata interamente genocida”.

L’offensiva della disinformazione russa ha in buona parte colto nel segno. In occidente, e in modo particolare in Italia, gran parte del dibattito si è incentrato sul tentare di capire quanti e quali attori in un paese democratico come l’Ucraina possano essere considerati nazisti, quanto l’irregimentazione del battaglione Azov nelle milizie regolari sia stato un madornale errore dei governi ucraini o quanto piuttosto ne definiscano l’essenza delle istituzioni. Una lunga serie di mistificazioni e contro argomentazioni per attribuire o meno tratti totalitari di una democrazia liberale in cui il principale partito di destra si attesta al 3% dei consensi.

Una discussione paradossale se si pensa che l’Ucraina è da un mese e mezzo stata militarmente invasa “da un regime che con lo scoppio della guerra è passato da autoritario e illiberale all’essere  dittatoriale”. A definirlo tale è Niccolò Pianciola, che oltre a insegnare storia dell’Asia all’università di Padova è membro di Memorial, la principale associazione che si occupa di violazione dei diritti umani in Russia. Il professore sottolinea in particolare le leggi che hanno silenziato e perseguito qualunque tipo di media indipendente che fino ad allora era riuscito a sopravvivere nonostante un contesto difficilissimo, la creazione di fatto di una verità di stato dalla quale non si può derogare se non a rischio della propria incolumità, l’eliminazione dallo spazio pubblico di associazioni e Ong indipendenti e un’ulteriore stretta alle possibilità di manifestare il proprio dissenso rispetto al governo: “Di fatto è stata eliminata la società civile”. “Uno stillicidio di continui peggioramenti della democrazia russa iniziato soprattutto a partire dal secondo mandato di Putin in poi”, sostiene Pianciola.

Il punto di discrimine della caduta della Russia in un regime autoritario è considerata la cosiddetta Legge sugli agenti stranieri emanata nel 2012. Un dispositivo che consente di silenziare, reprimere e condannare organizzazioni e singoli individui considerati “nemici dello stato” dai contorni talmente laschi che sostanzialmente lascia un potere discrezionale in mano all’autorità politica su chi sanzionare o meno. Un’autorità politica che con il passare degli anni si è sempre più centralizzata, al punto che ad oggi è sempre più difficile ricostruire la filiera di processi decisionali che non siano sollecitati o comunque non disapprovati dal Cremlino.

Nel 2019 Federico Delfino, studioso dell’università di Genova, parlava dello smantellamento di qualunque tipo di tentativo liberal democratico in Russia. Secondo Delfino si è assistito a “un crescendo di restrizioni alla libertà e ai diritti delle opposizioni politiche che in gran parte hanno influenzato la competitività delle elezioni e alterato lo stato di diritto ad ogni livello , come evidenziato anche da Mauro Volpi, che definisce la Federazione di Russia come una democrazia di facciata”. La legge sugli agenti stranieri è figlia dei tentativi di contestare proprio la democratura russa: “È arrivata dopo la grande stagione di proteste di piazza seguita alle elezioni legislative russe, in cui si rilevarono evidenti brogli - dice Panciola - Quando Medvedev annunciò che non si sarebbe ricandidato e che sarebbe ritornato Putin, chi si opponeva al governo decise di scendere in piazza”. Manifestazioni che, come quelle avvenute nel 2014 con EuroMaidan, “furono bollate dal Cremlino come eterodirette dagli occidentali”.

Per lo studio Democracy Index, che ogni anno individua il tasso di democraticità e di libertà dei diversi paesi, la Russia si trova al 124esimo posto su 167. Per il World press freedom index di Reporter senza frontiere, che fotografa la libertà di stampa, Mosca è al 150esimo posto su 180 Stati. Transparency International, che con il suo Corruption Perceptions Index identifica il tasso di corruzione presente nei confini nazionali di un paese, colloca la Russia al 125esimo posto su 180. Un quadro che colloca complessivamente la Russia tra i regimi autoritari del mondo.

Negli ultimi anni Putin ha cercato di consolidare il sistema di potere al quale ha dato vita nello scorso decennio, di perpetuarsi al vertice dello stato e di rendere di fatto impossibile la contendibilità della guida della Russia. Nel 2020 lo zar ha promosso un cambiamento della costituzione che mantiene di fatto il limite dei due mandati consecutivi per il Cremlino, ma esclude l’applicazione per il presidente in carica. Di fatto Putin potrà ricandidarsi per la quarta volta nel 2024, e farsi confermare nuovamente nel 2030 e fino al 2036, raggiungendo così un periodo al potere secondo nella storia del paese a quello dello zar Pietro il grande.

Un anno dopo, alla fine del 2021, è passata un po’ in sordina in occidente un’altra riforma cruciale, quella che azzera l’autonomia decisionale dei presidenti che amministrano le innumerevoli repubbliche e governatorati di cui è composta la Federazione Russa, svuotando in concomitanza anche il ruolo dei parlamenti locali. Sin dal 2000 Putin si è opposto con fermezza a un bilanciamento interno dei poteri, sfruttando la leva dell’estrema autonomia che alcuni leader locali si erano conquistati sotto il governo di Boris Eltsin. L’appoggio di molti di loro a Evgenij Primakov, che nel 2000 provò a contendere la leadership a Putin dopo essere stato vicino alla defenestrazione di Eltsin, e la presunta anarchia derivante dal mancato rispetto di leggi nazionali da parte di alcuni leader locali, hanno consentito a Putin una stretta fin dai primi giorni della presa del potere. Con la riforma del 2021 il presidente russo ha chiuso la questione: potrà licenziarli senza dare spiegazioni per “mancanza di fiducia”, bloccarne ogni iniziativa, decidere le nomine cruciali per l’amministrazione del territorio, che dovranno essere fatte “in coordinamento con il governo federale”. Senza contare che il meccanismo di elezione di burocrati di fatto inviati da Mosca e fantocci del Cremlino, in vigore già da anni, potrebbe essere ulteriormente esasperato.

La centralizzazione del potere è capillare. L’Amministrazione Presidenziale, una sorta di braccio esecutivo del Cremlino, da anni nomina i vice-governatori, una figura mututata dai commissari del popolo di era sovietica il cui compito è quello di assicurarsi che le direttive del governo vengano rispettate e di fungere da nesso con i servizi di sicurezza dell’Fsb, ex Kgb.

Sfidare il potere di Putin, a livello centrale e locale, è oggi praticamente impossibile. Chi si candida contro è sfavorito o oscurato dai media, minacciato, perseguitato giudiziariamente o eliminato fisicamente. Sono innumerevoli gli oppositori politici che sono stati uccisi in circostanze mai chiarite, da Boris Nemtsov a Denis Voronenkov, e messi in prigione, come Alexey Navalny, anche lui sfuggito a un tentativo di assassinio, o Lyubov Sobol. E la stessa cosa succede ai giornalisti considerati dissidenti. Secondo l’International Federation of Journalists sono oltre 150 i reporter e cronisti uccisi o scomparsi in Russia dal 2000 a oggi, senza contare processi spesso infondati con percentuali di condanna che raggiungono il 90%.

L’ultimo rapporto di Amnesty International sul paese ha evidenziato che “le elezioni parlamentari di settembre sono state accompagnate da una pressione senza precedenti sui candidati indipendenti dell’opposizione, anche impedendo loro di candidarsi per motivi pretestuosi”. E che “nei tre giorni di votazioni, osservatori elettorali indipendenti hanno segnalato un numero record di violazioni”.

Un progressivo processo di burocratizzazione di processi arbitrari già ampiamente diffusi nella Russia di Putin, che hanno lo scopo di ordinare e perpetuare un regime che vede nei momenti elettorali non la celebrazione di una libera competizione, ma lo strumento di legittimazione del potere. Nell’intervallo di tempo tra la legge sugli agenti stranieri e la riforma costituzionale che ha centralizzato il controllo dello stato, una lunga serie di altri provvedimenti hanno ristretto se non azzerato le libertà fondamentali dei cittadini russi: quello sulla “propaganda gay” nel 2013, sul “contrasto al terrorismo” nel 2016, sull’”internet sovrano” nel 2019. Gli stessi tribunali sono sottoposti al controllo del governo centrale. “Ma alla fine il potere in Russia è al di fuori delle sue stesse leggi, decide quel che è il suo interesse politico a prescindere”, denuncia Panciola. Come esempio cita il blocco dei conti che ha subito Memorial pochi giorni fa, associazione progressivamente resa illegale da Putin a partire dal 2014: “Per la legge russa non potevano farlo, abbiamo presentato ricorso”. Le possibilità di vincerlo sono pressoché nulle. La concezione putiniana del governo è ben riassunta da quel che disse nel 2019 in un’intervista al Financial Times: “Molti leader occidentali con cui ho parlato mi dicono che non possono applicare regole più severe nei loro paesi, e io dico loro: cambiate le vostre leggi”. Così ha fatto unilateralmente in Russia incontrando sempre meno opposizione.

Il fondamento teorico del potere putiniano è spesso stato identificato in un discorso del 2006 di Vladislav Surkov , che per un periodo ha guidato l’Amministrazione Presidenziale di Putin, nel quale ha coniato il concetto di “democrazia sovrana”. Scrive Delfino che “il Cremlino considera la democrazia sovrana come la risposta alla pericolosa combinazione della pressione anarchico-nichilista proveniente dal basso e della pressione internazionale proveniente dall’Occidente”. Uno schema a dire il vero poco originale che proietta la difesa e la tutela del popolo russo, in patria e all’estero, sulla figura di Putin, creando uno stretto legame tra la sua volontà e le sue decisioni e l’interesse dei suoi cittadini. Connessioni che hanno spesso connotati nazionalisti, reazionari e populisti che pescano in una generica nostalgia di un grande passato, quella che Zygmunt Bauman avrebbe probabilmente chiamato “retrotopia”, la creazione a tavolino di un passato mitologico al cui ritorno aspirare, ma che nei fatti non è mai esistito. Una dinamica che si è ben dispiegata a seguito dell’invasione Ucraina, e attraverso la quale si può leggere l’ampio consenso di cui il presidente è accreditato in patria proprio sulla guerra, in un mix esplosivo di ideologia e censura di informazioni che non siano funzionali agli interessi del Cremlino.

La burocratizzazione del regime illiberale di Putin punta a preservarne l’autocrazia e a rendere di fatto inscalfibile il suo potere. Gideon Rachman ha scritto sul Financial Times che “l’epoca dell’uomo forte è iniziata il 31 dicembre del 1999, quando Putin ha preso il potere in Russia”. Da allora “è stato d’ispirazione a una generazione di leader autoritari che ammiravano il suo nazionalismo, la sua audacia, la sua retorica violenta e il suo disprezzo del politicamente corretto”. Il paradigma riconosciuto di un leader che non viene eletto ma si serve delle elezioni per legittimarsi all’interno e agli occhi del mondo, e che da una parvenza di contendibilità del potere si sposta progressivamente verso un modello in cui lo stato si identifica con chi lo guida sine die.

Allo stesso giornale Putin due anni fa spiegò di essere convinto che “la democrazia  liberale oggi ha esaurito il suo compito”. In Russia è stata spazzata via. In Ucraina, nonostante gli errori, le ambiguità e i compromessi della sua classe politica, e nonostante un’aggressione militare che sta distruggendo il paese, è ancora viva e vegeta.