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DI MARCO FERRARI

Alla scoperta della videoarte made in Italy con la mostra appena inaugurata a Roma al Palaexpo di via Nazionale e alla Galleria comunale di via Crispi, dove resterà in cartellone fino a settembre. “Il video rende felici. Videoarte in Italia”, curata da Valentina Valentini, mette a fuoco la produzione di videoarte e cinema d’artista in Italia dalla fine degli anni Sessanta al nuovo secolo. In mostra 19 installazioni a cui si aggiungono oltre 300 opere raccolte all’interno di rassegne dedicate, per un totale di oltre 100 artiste e artisti coinvolti. Il percorso è una sorta di viaggio d’immagini tra video monocanale, installazioni video, multimediali, interattive, con l’intento di scoprire le interferenze del video con il cinema, la tv, il teatro, la danza, la fotografia, le arti plastiche. Alle opere esposte si affiancano i numerosi documenti, bozzetti, disegni, locandine, manifesti, fotografie e cataloghi, che ne ripercorrono il processo produttivo e il contesto storico. Al Palazzo delle Esposizioni il percorso mira a evidenziare le trasformazioni del formato installativo nel suo dialogo con lo spazio e con i dispositivi tecnologici con 13 rassegne fra miscellanee e personali di film d’artista e video monocanale: Marinella Pirelli, Michele Sambin, Giovanotti Mondani Meccanici, Mario Convertino, Studio Azzurro, Daniele Puppi, Rosa Barba, Danilo Correale, Elisa Giardina Papa, Quayola, Donato Piccolo. Alla Galleria d'Arte Moderna sono esposte sia installazioni che opere monocanale provenienti dai centri di produzione della videoarte, attivi in Italia sin dagli anni Sessanta. Qui si capisce pure il rapporto tra la videoarte, l’architettura radicale e il design postmodernista e le ibridazioni fra video e danza e fra video e teatro. Tra le installazioni troviamo opere di Fabio Mauri, Daniel Buren, Bill Viola, Cosimo Terlizzi, Umberto Bignardi, Masbedo, Fabrizio Plessi, Franco Vaccari. Siamo di fronte ad un fenomeno in cui l’Italia è stata pioniera: questo medium, fin dai primi anni Settanta, si è caratterizzato per le nuove estetiche emerse con l’arte ambientale, la body art, l’arte povera, la musica sperimentale, la controinformazione e le nuove forme di teatro e danza. Solo a partire dagli anni Novanta il formato installazione (video e multimedia) trova nei musei, nelle gallerie e in istituzioni come la Biennale di Venezia, una grande accoglienza, favorito dal diffondersi delle tecnologie digitali. Infine, nel nuovo secolo si accentua l’assimilazione della videoarte nel vasto territorio dell’immagine in movimento trasformato dalle tecnologie digitali. Una tendenza a cui ha fatto seguito un ulteriore ampliamento del campo: il coinvolgimento nell’operazione della nuova direzione del contemporaneo del Ministero dei Beni Culturali, istituito tre anni fa che include la videoarte. Che poi la videoarte renda felici, come dice il titolo, appare difficile da intuire. Una citazione – spiega la curatrice – rubata a Nam June Paik (1932-2006), coreano trapiantato negli Usa, uno dei padri fondatori della videoarte, per il quale «il video è come il sesso, lo possono fare tutti e tutti trovarci, ognuno a suo modo, appagamento. Un dispositivo espressivo che ha consentito agli artisti di essere indipendenti, svincolarsi dai centri di potere che governano i mezzi di comunicazione di massa e puntano a schiavizzarne, mutando di generazione in generazione sulla scia dei progressi tecnologici, le sterminate platee». Si può dire che la videoarte sia stata una risposta al televisore, inteso come scatola magica di immagini che vive nelle nostre case.  Per disinnescare il suo potere, molti artisti delle nuove avanguardie, dal pop all’arte povera, ma anche del cinema, si sono messi in competizione con la ripetitività del televisore. Tra i primi, sulla scia teorica del gruppo Fluxus, c’è June Paik, le cui istallazioni arrivano in Italia verso la fine degli Anni Sessanta, importate da alcune gallerie private di Roma e Torino che battono da apripista i territori confinanti del teatro, della sperimentazione musicale verso le frontiere inesplorate del suono e del rumore e della performance. Il movimento decolla nel decennio successivo e il monitor conquista nel nostro paese un ruolo di primattore autosufficiente, allusivo, dissacrante e poetico. Nelle piccole stanze della Galleria di via Crispi, tre esempi d’avanguardia antitelevisiva: la performance di Fabio Mauri, datata 1972 e andata in onda durante la trasmissione Rai Happening; il Mendicante elettronico di Franco Vaccari, realizzato nel 1973; l’istallazione di Fabrizio Plessi, oggi un maestro consacrato del settore. Da quegli anni le immagini in movimento non sono più solo un monopolio della Rai. In Italia nascono laboratori attrezzatissimi che fanno concorrenza a quelli americani. Il più noto quello di Firenze che produce due opere inserite in mostra: un esperimento zen di un Bill Viola agli esordi e le fascinazioni ottiche esibite al Pompidou di Parigi con cui Daniel Buren riverbera su monitor e schermi a telone i suoi inconfondibili moduli di fasce colorate. Il ruolo internazionale degli artisti italiani è rimarcato al Palaexpo dove si comincia con un’istallazione di Marinella Pirelli del 1968, riversata sul supporto digitale, che ora lo riproduce, nel 2004, salvandolo da morte sicura. Una sorte cui gran parte dei lavori di videoarte vanno incontro, se non si trova un rimedio: è il primo grido d’allarme che lo spettacolo di questa mostra lancia per salvare immagini che altrimenti perderemo per sempre.