di Pietro Salvatori

 

Donald Trump nei suoi anni di presidenza ha trasformato la Casa Bianca in una delle principali centrali mondiali della disinformazione, appoggiato più o meno inconsapevolmente da operazioni di propaganda e di soft power dalla Russia di Vladimir Putin, che ha visto nell’ascesa al potere del tycoon un perfetto grimaldello per scardinare l’unità euro-atlantica, anche grazie all’appoggio dei movimenti sovranisti del Vecchio continente, che in Italia in quegli anni erano al potere. Giuseppe Conte, alla guida di quel governo, ha intessuto in quel quadriennio rapporti mai del tutto chiariti fino in fondo sia con gli uni sia con gli altri. E favorì, rendendo disponibili i servizi segreti a incontrare l’ex Attorney General Willian Barr, la compulsiva ricerca di prove da parte di Trump e della sua amministrazione su una tesi complottista secondo la quale il Russiagate - la diffusione di email e documenti riservati di Hillary Clinton e dei vertici dei Democratici - non fu un’operazione di disinformazione per azzoppare l’avversaria alle elezioni. Secondo l’ex presidente Usa si trattò al contrario di una gigantesca cospirazione dei servizi occidentali in combutta con il deep state per screditarlo o addirittura impedirne l’elezione, il cui mandante sarebbe stato Barack Obama nel tentativo di sbarrargli la strada.

Il torbido contesto del 2019 evidenzia i prodromi di quanto è emerso con più nettezza in concomitanza con la crisi ucraina: l’affacciarsi sul dibattito pubblico di tesi cospirazioniste fondate sul nulla, alimentate dalla disinformazione russa con lo scopo di disunire un Occidente ritenuto pericoloso e da un’amministrazione americana che quelle tesi aveva sposato con convinzione, sdoganandole dal retrobottega dell’assurdo e facendone argomento di battaglia politica. Battaglia nella quale il ruolo del governo gialloverde ancora oggi non è del tutto chiaro.

Di certo c’è che Barr non venne in Italia in visita ufficiale o per incontri istituzionali nel reciproco interesse dei due paesi. Il ministro della Giustizia americano bypassò tutti i canali ufficiali e cercò di tenere i suoi due viaggi in Italia nel riserbo più assoluto. Il perché è presto detto. L’Attorney general agiva come una sorta di detective per conto di Trump, cercando di mettere le mani su una spia che veniva considerata come l’innesco del complotto: un agente con buone entrature nei servizi russi ma in realtà al soldo di fantomatici poteri forti dell’Occidente, consegnò a un collaboratore di medio livello della campagna di Trump quella che i sostenitori del presidente consideravano una polpetta avvelenata (le mail rubate ai democratici), allo scopo di mettere giudiziariamente nei guai The Donald nel caso fosse stato eletto e crearne i presupposti per la rimozione. Una polpetta per la quale i Repubblicani cercavano di scagionare l’alleato al Cremlino, sostenendo che l’hackeraggio dei server informatici degli avversari era arrivato non da Mosca, ma da Kiev, con l’Ucraina che avrebbe protetto una società americana in combutta con i Democratici.

Ricapitolando. Anche grazie ad hacker russi nel 2016 vengono diffuse mail e documenti che terremotano la campagna elettorale dei Democratici americani, dando un duro colpo alla candidatura di Hillary Clinton. Un calderone dal quale nasce un florilegio di teorie complottiste, tra cui spiccano Qanon e il cosidetto pizza-gate, rese celebri dai principali siti di disinformazione Usa tra cui Infowars.

Sono gli anni in cui si crea il brodo di coltura per le teorie della disinformazione che mettono nello stesso mucchio Joe Biden, suo figlio Hunter, George Soros e le loro fantomatiche implicazioni nel finanziamento dei laboratori biologici che avrebbero sviluppato armi per minacciare la Russia. Sono gli anni in cui l’Ucraina per il mondo trumpista e per buona parte dell’internazionale sovranista diventa un luogo di nazisti complottardi che si oppongono alla strada del cambiamento voluta da Trump e da Putin. E in quegli anni anche voluta anche dal governo italiano.

In questo contesto Trump e i vertici della Casa Bianca decidono di inaugurare (o di alimentare, i confini su chi ha ispirato chi sono incerti) una campagna di indagini per appurare quella che a tutti gli effetti è una teoria del complotto, nel tentativo di screditare Robert Mueller, il procuratore speciale che aveva condotto le indagini sull’allora presidente Usa.

La teoria era la seguente. Il professore di origine maltese Joseph Mifsud aveva consegnato a George Papadopoulos, uno dei consiglieri di politica estera di Trump, un dossier con parte del materiale che nei mesi successivi sarebbe stato rivelato da Wikileaks, allo scopo di consentire alla campagna repubblicana di sfruttarne le scottanti rivelazioni. E, di fatto, inguaiando il presidente una volta che la connessione fosse stata rivelata, come effettivamente poi successe. Ma a differenza di quanto asserito nel rapporto finale di Mueller, per la war room di Trump Mifsud non era un professore colluso con ambienti vicini ai servizi segreti russi, ma un agente provocatore dell’intelligence occidentale, che nel 2016 avrebbe dato vita a una tanto sofisticatissima quanto improbabile operazione boomerang sacrificando di fatto la candidatura Clinton sull’altare di un futuro possibile sgambetto all’avversario Repubblicano in caso di elezione.

Mifsud operava a Roma da professore della Link campus University, ateneo privato che è stato serbatoio di parte della classe dirigente M5s, dall’ex ministra della Difesa Elisabetta Trenta alla già viceministra agli Esteri Emanuela del Re passando per Paola Giannetakis, presentata in campagna elettorale come possibile ministra dell’Interno nella squadra ombra messa in piedi da Luigi Di Maio prima delle elezioni e poi spedita nel Cda di Leonardo. A Roma Mifsud avrebbe incontrato per la prima volta Papadopoulos passandogli del materiale scottante, nei giorni in cui l’advisor era stato spedito dalla campagna di Trump nella capitale proprio per prendere contatti e incontrare il personale della Link Campus.

Ecco cosa viene a fare a Roma Barr: cercare prove di questa assurda cospirazione dai servizi italiani, se non farsi consegnare proprio Mifsud, che nel frattempo dal 2018 aveva fatto perdere le proprie tracce. Conte non eccepisce. Barr viene ricevuto due volte dalle autorità italiane, la prima a Ferragosto del 2019, la seconda a fine settembre. Repubblica ha rivelato di una cena tra il capo del Dis Gennaro Vecchione e l’Attorney General statunitense la sera del 15 agosto, elemento delle visite di cui nessuno aveva dato conto fino a questo momento, come d’altronde altri tasselli della vicenda che sono emersi man mano nel tempo. Scavalcando i protocolli e nella massima riservatezza, l’emissario di Trump è venuto in Italia a cercare prove della presunta cospirazione da utilizzare nella campagna elettorale per la rielezione, circostanza alla quale il governo di Conte si prestò di buon grado, pur affermando che nessuna informazione sensibile fu condivisa con gli americani. Vecchione sentito dall’AdnKronos dice che la cena si rese necessaria “perché a Ferragosto in sede un rinfresco era difficile da organizzare”, Conte assicura che lui di quella cena non ha saputo nulla fino ad oggi, confermando che, se non fu malafede, la vicenda venne trattata ai limiti dell’improvvisazione, mettendo strutture dello stato a disposizione non degli Stati Uniti, ma di una teoria del complotto funzionale alla rielezione di Trump. E in maniera del tutto opaca. A ottobre del 2019 il New York Times rivelò  che alcuni diplomatici e dirigenti d'intelligence all'ambasciata Usa di via Veneto si ritrovarono Barr a Roma ignorando completamente i motivi del viaggio, ed espressero robuste perplessità di una deroga totale a qualsivoglia protocollo diplomatico. Repubblica asserisce inoltre che Luciano Carta a capo dell’Aise e Mario Parente suo omologo dell’Aisi per settimane vennero tenuti all’oscuro degli incontri. Papadopoulos, condannato nel Russiagate per aver mentito all' Fbi sui suoi rapporti con Mifsud, scrisse su Twitter che il professore maltese "era un operativo italiano gestito dalla Cia" e che "l'Italia tiene le chiavi del regno”, rilanciando l’idea che sotto il governo di Matteo Renzi l’allora premier avesse complottato con Obama nell’oscura trama sospettata da Trump. Quando Conte, come ha fatto ieri, chiede al leader di Italia viva se non va al Copasir perché “teme di dover poi rispondere alle domande dei componenti del Copasir e di essere obbligato, per legge, a riferire tutta la verità”, non fa che alludere a quella teoria cospirazionista.

Come già accennato, è proprio in quei mesi che si pongono le basi per le principali tesi complottiste rilanciate oggi dal Cremlino. L’offensiva della Casa Bianca per scovare oscure trame ai suoi danni con le quali screditare gli avversari politici toccò anche l’Australia e la Gran Bretagna - sostanzialmente per ragioni connesse a quelle per le quali fu chiesto un aiuto all’Italia - ma soprattutto l’Ucraina. Per scagionare l’amico russo, Trump il 25 luglio (tra la prima e la seconda visita di Barr a Roma) telefonò all’appena eletto presidente Volodymyr Zelensky chiedendogli di aprire un’indagine su CrowdStrike, una società americana operante nel territorio ucraino ritenuta la vera responsabile dell’hackeraggio. Dimostrare che i server dai quali era partita la soffiata a Wikileaks non operavano su suolo russo sarebbe stato a suo avviso che la disinformazione russa non c’entrava con lo scandalo delle email, accreditando la teoria che i responsabili andassero trovati nel deep state occidentale che si opponeva alla rivoluzione trumpista.

Una telefonata che pose le basi per il cosiddetto Ucrainagate. Trump chiese infatti a Zelensky di indagare sul presunto coinvolgimento di Hunter Biden nel capitale di alcune società che operavano in Ucraina, nel tentativo di azzoppare la candidatura del padre Joe allora suo principale competitor. Una connessione che nel giro di pochi anni ha stimolato la fantasia della complottosfera, che è arrivata ad attribuire a Biden jr. e ai suoi investimenti ucraini qualunque tipo di collegamento funzionale a demonizzare lui e, indirettamente, il padre, dal Russiagate fino al coinvolgimento nei fantomatici laboratori biologici segreti. Trump chiese a Zelensky di mettersi in contatto con il suo avvocato, Rudolph Giuliani, per lavorare insieme al caso. Di fronte ai tentennamenti di Kiev, il presidente Usa bloccò per mesi una consegna già concordata di forniture militari al paese, che aveva subito prima l’occupazione della Crimea e quindi la guerriglia separatista nel Donbass alimentata dal Cremlino. Nell’ottobre del 2019, incalzato dalla stampa che considerava la mossa di Trump un ricatto per scopi personali, Mick Mulvaney, capo dello staff della Casa Bianca, rispose: “Fatevene una ragione, l’influenza politica nelle relazioni internazionali esiste”. Per sviare le accuse Trump accusò Biden di aver bloccato un miliardo di aiuti all’Ucraina quando ricopriva l’incarico di vicepresidente di Obama allo scopo di silurare il procuratore generale ucraino che stava indagando sulla società energetica di un oligarca ucraino nel cui board sedeva il figlio di Biden.

Le teorie della cerchia trumpista si sono concluse in una bolla di sapone. Un paio di settimane fa, dopo che la Russia ha rilanciato il complotto su Hunter Biden e il suo coinvolgimento nei bio-lab ucraini insieme a Soros, Trump è tornato a chiedere al Cremlino di “fare luce” sulla questione, non avendo la sua indagine portato da nessuna parte. Già all’inizio del dicembre 2019 il Comitato di intelligence del Congresso statunitense impegnato a lavorare sull’Ucrainagate, pubblicò un rapporto che asseriva che "l'indagine sull'impeachment ha rilevato che il presidente Trump, personalmente e operando attraverso agenti all'interno e all'esterno del governo degli Stati Uniti, ha sollecitato l'interferenza di un governo straniero, l'Ucraina, a beneficio della sua rielezione. A sostegno di questo schema, il presidente Trump ha trattenuto gli aiuti militari Usa per combattere l'aggressione russa nell'Ucraina orientale”. Quattro mesi dopo il governo italiano accoglieva l’esercito russo nel territorio italiano, una “missione umanitaria” durante il primo lockdown per il Covid i cui costi sono stati interamente a carico dei contribuenti e della quale ancora oggi non sono ben chiari lo scopo e il perimetro d’azione.

Una nota di Palazzo Chigi definì le visite di Barr "operazioni di collaborazione tra Paesi alleati”, Conte spiegò tutto al Copasir e pensò di aver chiuso la questione. Qualche giorno fa in un’intervista ha denunciato “un vetero atlantismo di stampo fideistico”, riferendosi alle politiche sulla guerra che l’Europa sta portando avanti in sinergia con gli Usa di Biden contro la Russia. Chissà che anche lui non si annoveri nella sempre più numerosa schiera dei nostalgici del “neo trumpismo”. Sempre di stampo fideistico, s’intende.