di Valentina Gentile

 

Incendi e bombardamenti a pochi metri dai reattori di Zaporizhzia, la più grande centrale nucleare dell’Ucraina e d'Europa e la quinta al mondo. Soldati russi che hanno scavato trincee e percorso senza alcuna protezione la “Foresta Rossa”, sollevando nubi di polveri radioattive. E, ancora a Chernobyl, soldati russi che avrebbero, sempre secondo l’Agenzia statale ucraina per la gestione della zona di esclusione, rubato dai laboratori sostanze radioattive potenzialmente utilizzabili per fabbricare le cosiddette “bombe sporche”. A due mesi dall’inizio del conflitto in Ucraina, non si placa l’ansia per il futuro dei 15 reattori operativi nel Paese in quattro centrali nucleari, sette dei quali al momento collegati alla rete. Ci sono zone d’ombra, episodi inquietanti. Chi vuole controllare un Paese deve controllare prima di tutto i suoi punti strategici, che nel caso dell’Ucraina corrispondono alle centrali nucleari. Per cercare di fare luce e capire meglio quali sono o potrebbero essere i rischi legati al conflitto in corso, abbiamo intervistato Gianfranco Caruso, docente di Impianti nucleari presso il Dipartimento di Ingegneria astronautica elettrica ed energetica della Sapienza, Università di Roma. Ecco cosa ci ha spiegato. 

1. Centrali nucleari: cosa potrebbe succedere? 

“Semplificando, ci sono due modalità con cui si può provocare la fuoriuscita di materiale radioattivo dall’impianto: un attacco che riesca a danneggiare in maniera grave l’involucro al cui interno si trova il combustibile (il cosiddetto nòcciolo) o la messa fuori uso di tutti sistemi di raffreddamento dell’impianto. La tipologia degli impianti presenti in Ucraina è dotata di un contenitore di protezione in acciaio e cemento armato con spessore superiore al metro, progettato per resistere anche alla caduta di un aereo, con funzione di prima barriera; poi il combustibile del reattore si trova all’interno di un recipiente di acciaio di spessore 25 cm. Il reattore si spegnerebbe automaticamente in caso di attacco dall’esterno, come farebbe in caso di terremoto. 

Quindi escluderei che uno o più colpi occasionali di artiglieria possano mettere a rischio la struttura. Sarebbe necessario un attacco deliberato di più missili di alta precisione per danneggiare tutte le barriere, ma obiettivamente c’è da considerare che in quel caso il rilascio di materiale radioattivo non sarebbe controllabile e raggiungerebbe probabilmente anche i territori di tutti i paesi confinanti. Ritengo improbabile un atto di tale portata autolesionista. 

Per quanto riguarda i sistemi di raffreddamento di emergenza, a parte che i principali sono protetti all’interno del suddetto sistema di contenimento, le fonti di alimentazione di energia necessarie sono multiple e dovrebbero essere messe fuori uso tutte contemporaneamente, il che riduce il rischio che ciò accada. Anche in questo caso le conseguenze potrebbero seriamente danneggiare gli attaccanti e i territori confinanti”. 
2. Incendi e bombardamenti potrebbero causare una nuova Chernobyl? 

“Quanto accaduto nel sito di Zaporizhzhia il 4 marzo scorso è stata, a mio parere, più un’azione dimostrativa da parte degli occupanti che un attacco teso a danneggiare gravemente la centrale e provocarne un incidente. Qualche proiettile ha raggiunto uno dei corridoi di servizio di una unità, senza rischi concreti per il reattore, ma la battaglia vera e propria si è svolta al di fuori del perimetro di sicurezza dell’impianto e quello che è andato distrutto era un edificio convenzionale a diverse centinaia di metri dal reattore. 

Il rischio nullo non è concepibile, ma posso affermare che un eventuale, improbabile, evento distruttivo di un impianto della tecnologia presente in Ucraina non provocherebbe le stesse conseguenze ad esempio dell’incidente di Chernobyl in termini di estensione e intensità della nube radioattiva: a Chernobyl non era presente un contenitore di sicurezza come quello descritto e in quel reattore l’incendio della grafite (che negli impianti attualmente in funzione non è presente) favorì l’ascesa della nube radioattiva ad altitudini tali per cui i venti ne determinarono la diffusione su grande scala. 

In termini di conseguenze, quindi, queste sarebbero inferiori, forse paragonabili a quelle dell’incidente di Fukushima, dove le conseguenze di carattere radiologico furono molto più limitate, anche se c’è da considerare che in una situazione di conflitto le azioni mitigative sarebbero certamente più difficili”.

3. Con quali sostanze sono venuti a contatto i soldati nella Foresta Rossa? 

“Il terreno della zona di esclusione contiene gli isotopi radioattivi, più di 100 diversi elementi, emessi durante l’incidente del 1986 e che si sono depositati. Molti di questi, a 36 anni dall’incidente, si sono trasformati in isotopi stabili, non più pericolosi. Lo iodio radioattivo, ad esempio, ha un tempo di dimezzamento di 8 giorni, per cui ad oggi può considerarsi scomparso. Fanno eccezione alcuni elementi, come lo Stronzio ed il Cesio, che hanno tempi di dimezzamento di circa 30 anni, quindi oggi il loro contenuto si è ridotto solo di circa la metà rispetto a quello depositato nel periodo dell’incidente. Ma non è da trascurare la presenza degli isotopi come il Plutonio e l’Uranio che, avendo tempi di dimezzamento estremamente lunghi, sono ancora presenti nel terreno della zona di esclusione”.

4. Con quali conseguenze?

“I militari che si sono trovati ad operare in quell’area in presenza di polveri radioattive sono stati innanzitutto soggetti a contaminazione del vestiario e della pelle, su cui tali elementi si saranno depositati. Se non sono state adottate misure di decontaminazione (lavaggio accurato sia del vestiario che della persona stessa), i contaminanti si possono trasferire su altre superfici e persone con cui vengono a stretto contatto. Questo determina una irradiazione esterna, che perdura fino a che non si cambi il vestiario e non si faccia una doccia, e che si aggiunge a quella proveniente dal terreno e dalla nube di polveri, la quale invece avviene solo durante la permanenza all’interno della nube e su quel terreno. 

Più che della irradiazione esterna, la cui intensità e durata non sembra essere tale da determinare effetti immediati, la preoccupazione maggiore per la salute di coloro che sono stati a contatto con queste polveri con elevate concentrazioni di sostanze radioattive è associata alla loro ingestione o inalazione. In questo caso la permanenza all’interno degli organi del corpo umano può essere anche molto lunga, in base alla loro tipologia e ai processi metabolici, se non addirittura essere definitiva, come ad esempio nel caso dello Stronzio che tende a fissarsi nelle ossa.

Maggiore è il tempo di permanenza all’interno del corpo, più alta sarà la probabilità di incorrere in gravi malattie a lungo termine. Se poi le modalità operative avessero determinato l’inalazione o l’ingestione di elevati quantitativi di sostanze radioattive in un tempo relativamente breve, si potrebbero manifestare anche effetti immediati più o meno gravi, derivanti da cause sia chimiche che radiologiche”. 

5. Quali sono le sostanze radioattive rubate? 

“Da quello che può evincere dalle comunicazioni pervenute dall’Ucraina, i soldati occupanti la zona di Chernobyl hanno saccheggiato due laboratori a poca distanza dalla centrale, uno dei quali era equipaggiato con tutto quanto necessario per la calibrazione dei dosimetri personali. Questi vengono indossati come un badge per misurare l'esposizione alle radiazioni ionizzanti. La calibrazione necessita, oltre che di strumentazione di misura, anche di sorgenti di radiazioni di intensità nota, per poter verificare che la risposta del dosimetro fornisca valori corretti. 

Molti degli oggetti rubati sono probabilmente le sorgenti, di diversa intensità e tipologia, di cui il laboratorio era dotato. Sono in genere dei piccoli contenitori metallici al cui interno è contenuta una sostanza radioattiva in piccole quantità e che all’occhio inesperto possono sembrare degli oggetti innocui e attrattivi come souvenir. Molte di queste sono infatti simili a delle monete 2-3 cm di diametro e spessore dell’ordine di 1 millimetro e il materiale radioattivo è in genere sigillato in maniera tale da non poter essere disperso, a meno di non distruggere il contenitore. A volte queste sorgenti sono in flaconi o contenitori e integrate in matrici di resina o anche vegetali e vengono utilizzate anche nelle analisi ambientali. 

La quantità di materiale radioattivo è comunque molto limitata, ma la loro conservazione, manipolazione e il trasporto sono soggetti a rigidi protocolli internazionali a cui le norme nazionali, anche in Ucraina, si adeguano. Non è noto se fra quanto sottratto ci fossero dei campioni ambientali della zona contaminata attorno alla centrale, ma si tratterebbe comunque di quantità minime, dei campioni appunto. Escluderei che nel laboratorio fossero conservate elevate quantità di rifiuti radioattivi derivanti dal sito dell’incidente della centrale di Chernobyl, sarebbe contrario ai protocolli internazionali che comunque l’Ucraina ha dimostrato di rispettare, sotto il controllo della Iaea”.

6. A che scopo il furto? 

“Il furto non sembra un’azione premeditata e organizzata per scopi malevoli, piuttosto un saccheggio indiscriminato da parte dei soldati ignari di cosa stessero maneggiando. Sembra che nello stesso sito abbiano sottratto schede o componenti di computer, che non avevano un valore strategico, ma puramente economico. Un utilizzo malevolo potrebbe far pensare alla realizzazione di una cosiddetta “bomba sporca”, cioè un esplosivo convenzionale in grado di disperdere del materiale radioattivo nella zona colpita: escluderei questo tipo di utilizzo con i quantitativi e la tipologia di materiali sottratti, questo ordigno farebbe più danni a causa dell’esplosione convenzionale che non per la dispersione del materiale radioattivo. Purtroppo, la sola idea alimenta la paura indotta negli anni nell’immaginario collettivo quando si parla di “nucleare” in modo approssimativo e, sfortunatamente, esistono in realtà modalità molto più semplici e più efficaci per fare intenzionalmente gravi danni senza utilizzare sostanze radioattive.

La questione è capire che fine abbia fatto il materiale rubato, se sia stato disperso nelle zone circostanti o inviato al di fuori del territorio ucraino come bottino o per essere messo in vendita. Chi ne venisse in contatto, ovviamente senza le necessarie protezioni, potrebbe subire dei danni alla propria salute, come potrebbe essere accaduto ai soldati che avessero ad esempio tenuto nelle tasche della loro mimetica le sorgenti di calibrazione”.

7. Lo stress dei lavoratori delle centrali aumenta il rischio?

“Nel settore nucleare qualunque aspetto viene considerato un fattore di rischio e anche il cosiddetto “fattore umano” non fa eccezione, viene previsto e si cerca di minimizzarne l’impatto. I sistemi automatici di controllo del reattore sono in grado di intervenire autonomamente e mettere l’impianto in sicurezza se una qualunque manovra degli operatori portasse l’impianto in una condizione pericolosa e non è possibile, nei reattori attualmente in funzione anche in Ucraina, escluderne deliberatamente o meno l’intervento, come ad esempio accadde a Chernobyl 36 anni fa. Chi opera in ambito nucleare, ed in particolare gli operatori di una centrale, lavorano in un ambiente dove la “cultura della sicurezza” è al primo posto e sono in grado di mantenere la freddezza necessaria ad affrontare le situazioni critiche che dovessero presentarsi come, per fare un esempio, un pilota di un aereo passeggeri o un equipaggio di una navicella spaziale. A questo si aggiunga il fatto che questi operatori sono fortemente motivati nel tenere in sicurezza la loro centrale nel loro territorio occupato, in questa particolare situazione. Ripeto, il rischio “zero” non esiste e lo stress è accentuato dalla situazione di conflitto circostante, ma le buone pratiche adottate in campo internazionale, seguite anche dall’Ucraina, dovrebbero assicurare che l’addestramento degli operatori sia sufficiente a mantenerlo sotto controllo”.

8. L’Iaea sta preparando delle missioni di sicurezza nucleare in Ucraina. Di che si tratta?

“Come spiegato dal direttore della Iaea, Raphael Mariano Grossi, lo scopo di queste missioni è condurre una valutazione radiologica sul posto, riprendere il monitoraggio remoto dell’impianto e del suo materiale nucleare e consegnare attrezzature, compresi pezzi di ricambio e componenti, per il funzionamento sicuro e protetto delle installazioni, oltre che fornire un supporto alle decisioni operative dei gestori delle installazioni. Non si tratterà quindi di semplici riunioni di alti dirigenti attorno a un tavolo, ma un aiuto concreto, tecnico e operativo. Da quanto riferisce la IAEA stessa, la situazione radiologica durante le settimane di conflitto è sempre stata sotto controllo, anche in assenza di dati provenienti dalla prossimità degli impianti. La radioattività, infatti, è un fenomeno che può essere rilevato con estrema facilità anche in quantità minime, e anche a centinaia o migliaia di kilometri di distanza, se dispersa nell’ambiente. È evidente che, in una situazione di conflitto, questo tipo di missioni vengono concordate e avranno una efficacia tanto maggiore quanto più saranno svolte con la collaborazione di chi in quel momento ha il controllo dell’impianto. In questo momento gli impianti precedentemente occupati sono tornati sotto il controllo del personale ucraino e, malgrado le difficoltà logistiche, avranno l’efficacia necessaria. In ogni caso nessuno, anche gli eventuali occupanti, avrebbe l’interesse che la sicurezza di una installazione nucleare venga messa a rischio. Sarebbe più concreta la possibilità che si voglia spegnerla per rendere indisponibile la produzione energetica”.