di Angela Mauro

Il patriarca Kirill è salvo. Da oggi il suo nome non figura più nella lista dei sanzionati dall’Ue. Ci ha pensato Viktor Orban a tirarlo fuori, confermando che il suo legame con Mosca e Vladimir Putin va oltre gli interessi economici dell’Ungheria: è un’alleanza molto più stretta degli scambi commerciali. Oggi l’ambasciatore di Budapest è stato investito da una vera e propria raffica di accuse in Coreper, il comitato dei rappresentanti diplomatici degli Stati membri riunitosi per sbloccare la situazione dopo il nuovo veto di ieri. Ma, rabbia a parte, per liberare la nuova tranche di misure restrittive, gli altri 26 ambasciatori hanno dovuto cedere al diktat dell’ungherese: fuori Kirill dalla lista.

Tutto il resto è una storia fatta di minacce per il futuro e rumors su obiettivi mancati. Secondo alcune fonti Ue, oltre all’esclusione di Kirill, il capo della Chiesa ortodossa e voce importante della propaganda di Putin, il governo di Budapest puntava a ottenere anche altre deroghe sul petrolio russo. Vale a dire: il diritto a esportare il prodotto raffinato fino al 2026. Secondo l’accordo raggiunto dai leader in Consiglio europeo martedì, Orban potrà continuare a importare l’oro nero di Mosca, perché l’oleodotto che glielo porta è esentato dalle sanzioni fino a data da decidersi: di fatto, ‘sine die’ per ora. Ma non può esportare il prodotto che esce dalle raffinerie ungheresi. Un bel danno. Secondo gli slovacchi, il divieto di esportazione potrebbe far chiuede le loro raffinerie perché non si arriverebbe al minimo tecnologico di produzione sostenibile per fornire anche il mercato interno. Ad ogni modo, questa ulteriore deroga non è nel carnet delle vittorie che Orban ha ottenuto nella partita sul sesto pacchetto di sanzioni.

E anzi. Da Bruxelles filtra una nuova minaccia. Se l’Ungheria continuerà con questo atteggiamento di ricatto e veti, gli altri Stati potrebbero prendere in considerazione l’ipotesi di introdurre dazi sull’import del petrolio russo a partire da febbraio 2023. I dazi non riguarderebbero gli Stati europei che per quella data dovranno fermare le importazioni via mare, secondo l’accordo raggiunto in Consiglio. Ma riguarderebbero l’Ungheria e i paesi toccati dall’oleodotto esentato, il Druzhba: Repubblica Ceca, Slovacchia, Croazia, ma non Polonia e Germania che si impegnano (seppure ancora senza intese scritte) a chiudere i rubinetti a partire da febbraio. Per effetto delle nuove imposizioni il prezzo delle importazioni aumenterebbe danneggiando l’economia ungherese e rendendo più difficile lo scambio con Mosca. Mentre l’Opec aumenta la produzione di +648mila barili al giorno. “Questo ci renderà più facile diversificare le nostre forniture e rinunciare al petrolio russo”, commenta Ursula von der Leyen.

Ma i dazi sul petrolio russo sono la pistola puntata sul tavolo, una minaccia non ancora concreta. La realtà è che Orban può esultare anche oggi. L'Ungheria ha combattuto "una lunga battaglia, ma ne è valsa la pena”, canta vittoria il ministro degli Esteri dell'Ungheria, Peter Szijjarto, perché ha ottenuto "l'eccezione per i trasferimenti tramite oleodotti" di petrolio russo e "la rimozione del nome del patriarca Kirill" dalla lista delle persone sanzionate da Bruxelles. "Il pacchetto - aggiunge - è ora in linea con gli interessi di sicurezza nazionale dell'Ungheria". Nello specifico del caso Kirill, Budapest prova a screditare gli altri Stati Ue. “L’Ungheria - scriveva il portavoce di Orban Zoltan Kovacs oggi prima dell’intesa finale - ovviamente si atterrà alla decisione congiunta dell'Ue. Secondo il premier, la posizione dell’Ungheria sul Patriarca ‘era nota da tempo’ e nessuno al vertice di Bruxelles si è opposto”. Tradotto: anche gli altri Stati sono sempre stati d’accordo sull’esclusione di Kirill.

Naturalmente c’è tanta propaganda. Resta il fatto che il recovery plan ungherese rimane bloccato, mentre quello polacco si sblocca con la guerra in Ucraina. Come l’Ungheria, la Polonia si era vista congelare i fondi per violazioni dello stato di diritto, nello specifico la riforma della giustizia che lede l’indipendenza dei magistrati. Oggi Ursula von der Leyen va a Varsavia per pronunciare il fatidico sì, a patto che il governo torni indietro sulla giustizia e dia la possibilità ai giudici sanzionati di fare ricorso. “L’approvazione del piano di ripresa e resilienza è legata a chiari impegni da parte della Polonia sull'indipendenza del sistema giudiziario”, dice la presidente della Commissione Europea nella conferenza stampa congiunta con Mateusz Morawiecki, primo ministro polacco.

Ma è chiaro che il via libera scaturisce più dall’impegno della Polonia contro Mosca e nell’accoglienza dei profughi dall’Ucraina che dalle riforme: ancora da fare. Tanto più che, pur con von der Leyen accanto, Morawiecki nega tutto. “L’opposizione al nostro governo, come parte di una guerra politica, ha tentato ed è riuscita a convincere alcuni funzionari Ue che lo Stato di diritto è in pericolo in Polonia - attacca il premier - Non sono d'accordo e ritengo che siamo di fronte alla situazione opposta e sono convinto che molti dei nostri cittadini sono d'accordo con me. Vogliamo un'Unione europea forte, ma allo stesso tempo vogliamo un'Ue che rispetti il diritto degli Stati sovrani".

Orban ottiene l’esclusione di Kirill, oltre alle deroghe già incassate. Morawiecki riesce addirittura a sbloccare il recovery. Mica male per due sovranisti anti-europei.