Russia
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di Lorenzo Santucci

Se l’affidabilità dei numeri durante la guerra è pressoché impossibile, c’è un dato che sembrerebbe essere confermato da entrambe le parti: gli ucraini che hanno oltrepassato il confine con la Russia dall’inizio del conflitto sono più di 1,6 milioni. Tra questi, ha denunciato tre giorni fa il presidente Volodymyr Zelensky, oltre 200 mila sono bambini. Più precisa ancora è stata la Tass, l’agenzia di stampa russa megafono del Cremlino, che ne ha contati 263 mila. Un numero ancor più alto di quello riportato una decina di giorni fa dal consigliere della missione permanente ucraina all’Onu, Sergiy Dvornyk, secondo cui i bambini “rapiti” dalla Russia erano circa 30 mila in meno. “Lo scopo di questa politica criminale”, ha affermato Zelensky nel suo discorso, “non è solo quello di rubare le persone, ma di far dimenticare ai deportati l’Ucraina e impedirgli di tornare”. Per Mosca, al contrario, la migrazione (forzata) rientra nei piani di liberazione dell’operazione speciale, in corso da oltre cento giorni. Pertanto i numeri sui desaparecidos ucraini combaciano, mentre a differenziarsi sono le ragioni che spingono i russi a caricarli sui treni per spedirli a migliaia di chilometri di distanza da casa, nelle parti più remote della Russia.

Nelle aree occupate, gli ucraini vengono interrogati, schedati e spesso maltrattati all’interno dei cosiddetti campi di filtrazione. Come dice la parola stessa, è il luogo dove vengono smistati quelli che possono rimanere e quelli che invece devono partire, quasi sempre in direzione Rostov, sul fiume Don, per poi finire in qualche località sperduta della Siberia, al Circolo Polare Artico o in Kamchatka. Si dice per poco tempo (non a caso si chiamano Temporary accomodation point, Tap), ma quasi mai è così. Sempre secondo la Tass in 559 di questi centri si trovano circa 33 mila ucraini, un terzo dei quali bambini. Le donne vengono riservate per i lavori più umili e mal retribuiti (l’equivalente in rubli di 175 euro al mese), mentre per gli uomini si spalancano le porte dell’esercito, russo si intende. Per i bambini, invece, si spalancheranno in futuro.  Alla base, infatti, c’è la volontà di rinfoltire le future linee dell’Armata russa, spopolando le città ucraine e dando nuova linfa alle aree sperdute della Russia, caratterizzate da bassa natalità, stipendi minimi e temperature a dir poco rigide. Per questo il numero dei minori sottratti all’Ucraina è in proporzione così alto. “Il rapimento di almeno 230 mila bambini ucraini, deportati con la forza in Russia, è un crimine volto a distruggere la nazione privandola delle giovani generazioni, che è una moderna manifestazione di colonialismo”, ha dichiarato il consigliere Dvornyk alle Nazioni Unite.

I prigionieri di guerra vengono presi, naturalmente, dalle città conquistate dalle forze russe o da quelle che già controllavano prima della guerra. A Mariupol, ad esempio, le autorità ucraine denunciano la sparizione di oltre 15 mila bambini. Tutto secondo i piani (russi), dato che il 30 maggio scorso Vladimir Putin ha posto la sua firma sull’ukaze (letteralmente un editto, ma in questo caso parliamo di un emendamento a un decreto di tre anni fa) che consente il rilascio della cittadinanza russa per gli orfani ucraini o per quelli che hanno perso le tracce dei propri genitori durante l’assedio. Questi ultimi sono la stragrande maggioranza – quelli che hanno perso i genitori a circa 1.200 -, il che vuol dire che la legge del Cremlino sorvola sul fatto che, da qualche parte, questi bambini hanno ancora una madre o un padre. Basterà un semplice documento di identità per presentare domanda di adozione, a cui seguirà un processo molto più veloce del solito che prevede la ricerca di un parente, anche non di primo grado, che vive in Russia e a cui affidarlo. Nel mentre, migliaia di minori rimangono sotto la tutela dello Stato russo. La nazionalità dei bambini che vivono nelle zone occupate del Donbass, e nei corrispettivi oblast, puòessere automaticamente convertita secondo questo provvedimento. Parliamo quindi di zone come Lugansk e Donetsk, che comprende anche Mariupol, ma anche di Zaporizhzhia e Kherson.

La russificazione, infatti, non avviene solo cambiando cittadinanza sul documento. L’operazione capillare che sta portando avanti Mosca prevede, invece, una drastica cancellazione della cultura locale. “L’Ucraina è stata creata dalla Russia e ne è parte integrante, per la sua storia e la sua cultura”, affermava d’altronde Putin poche ore prima di dare inizio all’invasione. Ancora più schietto era stato il suo ministro degli Esteri, Sergej Lavrov, quando sosteneva che “non ha il diritto di essere una nazione sovrana”. Parole a cui sono seguiti i fatti, laddove è stato possibile. Probabilmente al Cremlino si aspettavano un’Ucraina del tutto assoggettata alla Russia ma, al momento, l’annessione culturale sta avvenendo solo – si fa per dire – laddove l’Armata russa è riuscita a mettere le mani. La regione di Kherson ne è l’esempio più lampante. Non è solo una questione di passaporti, come scritto, ma molto più ampia. Il rublo è stato dichiarato moneta di scambio ufficiale e, nel giro di pochi mesi, sostituirà del tutto la grivna. Le scuole, invece, hanno dovuto adottare nuovi libri mentre in televisione i canali ucraini sono stati sostituiti da quelli russi. Mancherebbe solo un referendum con cui certificare che quelle terre sono di proprietà di Mosca, ma al momento è tutto rimandato per il timore di compiere un errore difficile da rimediare: la maggior parte degli ucraini, restii alla sottomissione, non andrebbe a votare e, pertanto, il fiasco russo diventerebbe di dominio pubblico. Ma chi rimane a casa lo fa più che altro per paura.

Dai racconti dei testimoni, sempre di meno per la difficoltà di documentare quanto avviene dentro la città di Kherson, la pressione psicologica adottata dai russi nei confronti della popolazione locale è tale che molti cancellano prove del loro essere ucraini. Alcuni “sono stati torturati perché non volevano passare dalla parte russa, perché si trovavano a dei raduni, perché hanno difeso il loro territorio o perché qualcuno della famiglia ha combattuto contro i separatisti”, ha raccontato un medico alla Bbc. Questa è la storia di chi rimane e convive con l’occupazione, mentre il futuro di chi ha lasciato l’Ucraina contro il suo desiderio è scritto nella dichiarazione, valida per la nuova cittadinanza, che si vede costretto a firmare una volta arrivato nel suo nuovo Paese: “Mi impegno a essere fedele alla Russia, a compiere scrupolosamente il mio dovere civico e a sostenere i miei obblighi in accordo con la Costituzione e le leggi della Federazione russa”.