Gente d'Italia

Trump, il piano di Mike Pence e i soldi degli elettori americani

Donald Trump (Depositphotos)

DI SONIA TURRINI

Le udienze del comitato parlamentare che indaga sui fatti del 6 gennaio 2021 prendono sempre più la forma del processo di impeachment a Trump che i Democratici non hanno avuto il tempo di celebrare adeguatamente dopo l’insurrezione a Capitol Hill. Nell’ultima settimana, il comitato ha tentato di fare esattamente l’opposto di ciò di cui i repubblicani lo accusano: ben lungi dal demonizzare l’intero partito dell’ex presidente, la seconda e la terza udienza hanno piuttosto raccontato una storia di politici, consiglieri e avvocati conservatori che hanno cercato di arginare la crociata per rimanere al potere di Donald Trump, unico obiettivo dell’indagine. Una settimana di inaspettati eroi, tutti gli uomini del presidente diventati improbabili paladini del processo democratico, seppur con sospetto ritardo.

Durante la seconda udienza, al pubblico sono state introdotte le due fazioni in cui i consiglieri di The Donald erano divisi, note internamente come Team Normal, la “squadra dei normali”, e Team Crazy, la “squadra degli svitati”, capitanata dall’ex sindaco di New York Rudy Giuliani, la cui licenza di avvocato è stata sospesa proprio a causa del suo coinvolgimento nei fatti del 6 gennaio. Un susseguirsi di testimonianze, tra cui ha fatto particolare rumore quella dell’ex procuratore generale Bill Barr, hanno narrato il rapido scivolare del presidente in un turbinio di teorie e interpretazioni dei fatti fantasiose prodotte per lui dalla “squadra svitati” di Giuliani, che lo ha assecondato convincendolo ad autoproclamarsi vincitore delle elezioni prima che lo spoglio fosse stato concluso. Dopodichè, rubando una battuta a Gola Profonda, “la verità è che questa non è gente molto intelligente… e le cose sono sfuggite di mano”.

Il protagonista indiscusso della settimana, però, è stato l’ex vicepresidente Mike Pence, al centro del disegno con il quale Trump sperava di bloccare la certificazione della vittoria di Biden: secondo un’interpretazione bislacca dell’Electoral Count Act, in qualità di vicepresidente e presidente del Senato, Pence avrebbe avuto il diritto di annullare le elezioni rifiutando di contare i voti di alcuni Stati, arbitrariamente ritenuti contestabili. Un piano che il presidente, è stato sottolineato a più riprese, era ben consapevole essere incostituzionale; lo stesso sgangherato avvocato Eastman, che per primo propose questa idea a Trump, seguito dall’allora procuratore generale Bill Barr e dallo stesso Pence, avrebbe detto al presidente che si trattava di una chiara violazione della legge federale. Un dettaglio non di poco conto: dimostrare che Trump fosse consapevole dell’illegalità delle sue azioni e avesse un intento criminale è essenziale per convincere l’attuale procuratore generale Merrick Garland, che ha fatto sapere ai media di star assistendo con grande interesse a tutte le udienze, ad avviare un procedimento penale ai danni dell’ex presidente.

Attraverso le testimonianze di membri dello staff e i video delle telecamere interne al Campidoglio, il comitato ha dato conto del coraggio del vicepresidente nel decidere di disobbedire agli ordini di Trump, scegliendo di portare a termine il suo dovere di certificare la vittoria elettorale di Biden appena possibile, nel cuore della notte tra il 6 e il 7 gennaio, anziché scappare dal Parlamento per allontanarsi dalla folla, come suggeritogli dai servizi segreti. Oltre che per il suo incensato senso del dovere, Mike Pence ha brillato per la sua assenza; pur non avendo ancora testimoniato in prima persona, non è tuttavia escluso che sia convocato nelle settimane a venire.

Infine, il comitato ha cercato di fare breccia nel muro di supporto che circonda Trump nei circoli più conservatori del paese aprendo un nuovo capitolo finora passato relativamente sotto silenzio: i finanziamenti racimolati da Trump dopo la sconfitta elettorale di novembre 2020 truffando i suoi stessi elettori, chiedendo loro di contribuire ad un “fondo di difesa” che avrebbe finanziato le battaglie legali per ribaltare l’esito elettorale. La grande bugia che le elezioni siano state rubate, la Big Lie come la chiamano i media americani, si è rivelata così per Trump una miniera d’oro da 250 milioni. Il fondo di difesa elettorale, infatti, sembra non essere mai esistito, le battaglie legali mai combattute, e i soldi dirottati sul gruppo Save America, che li ha poi spesi in modo dubbio: centinaia di migliaia di dollari agli hotel di Trump, milioni a organizzazioni di familiari e stretti collaboratori, 60mila dollari alla fidanzata del figlio per un discorso durato meno di 180 secondi. Sperando di convincere l’elettorato ad allontanarsi dall’ex presidente, il comitato ha promesso che nelle prossime settimane continuerà a seguire i soldi.

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